In punta di piedi al laboratorio di Natacha Belova
È sempre un privilegio poter essere ammessi come visitatori ad un laboratorio.
Quanto mai esposto alla fragilità della forma artistica, che vi sta prendendo corpo, più che luogo fisico, questo palpita quasi come una categoria dello spirito. Miriadi di pensieri, progetti, suggestioni, domande, sfide, provocazioni e – certo – emozioni, si agitano, qui. In una species ancora larvale, si dibattano, mutevoli e cangianti, alla ricerca della loro forma definitiva. È un po’ come assistere al miracolo oscuro e stupefacente della creazione. E non c’è altro modo di guardarlo, se non con l’incanto, negli occhi, e spirito d’accoglienza – nel cuore – come di fronte ad ogni nascita.
Questo a me è capitato, andando a curiosare nel laboratorio di puppet “Album di famiglia”, tenutosi, al Teatro Munari di Milano, dal 22 ottobre al 9 novembre 2019, data in cui ci sarà anche una restituzione pubblica degli esiti del lavoro.
A condurlo, Natacha Belova, artista russa, naturalizzata belga dal 1995. Nata come costumista e scenografa, in seguito scopre la sua passione per il teatro di figura, esplorando le potenzialità espressive delle marionette ibride a taglia umana, Lo fa in questo laboratorio e nel precedente, “La barca dei Matti”, un paio di anni fa, sempre in collaborazione con IF Festival Internazionale del Teatro di Immagine e Figura e col Teatro del Buratto. Nominata tre volte consecutive per il premio della critica in Belgio, è stata premiata nel 2010. Il suo ultimo spettacolo, “Chaïka” (ispirato a “Il gabbiano” di Cechov), ha ricevuto il premio come Miglior Spettacolo del 2018 in Cile.
Così, entrare in punta di piedi credo sia il solo modo possibile, lasciando che siano loro – i protagonisti – a raccontare.
Del progetto ci parla Nadia Milani, organizzatrice del laboratorio, oltre che animatrice su nero di oggetti e figure.
Ma se Natacha e Nadia sono addette ai lavori, per molti dei partecipanti questa è la prima esperienza di costruzione e/o manipolazione. E quel che ne vien fuori è tutta la trepida paura-e-desiderio della prima volta.
Così capita che si decida di lavorare sulla propria famiglia – in alcuni casi una sorta di ancoraggio, che forse rende più sicuro, per quanto spesso certo non comodo, muovere i primi passi -, mentre, in altri, che già si spazi alla ricerche delle dinamiche – e, spesso, delle distonie -, che si replicano in ogni famiglia… fino a spingersi all’indagine di certe dinamiche umane tout-court, interrogandosi sulla natura delle relazioni e su quella liquidità, che, oggi sempre più, spariglia i rapporti fra le persone.
Le tecniche usate per costruire i volti sono due: in gommapiuma e rivestimento con tessuto elastico – che, se moltiplica le potenzialità espressive del puppet, richiede però una maggior perizia nella costruzione – e la scultura – che offre il vantaggio, una volta modellato e rimodellato il calco in terracotta a proprio piacimento, di avere un forma definitiva: al riparo dall’effetto-sorpresa, che il rivestimento in lycra può talvolta sortire.
Ma credo che la cosa più spiazzante siano le storie che loro – i puppets – desiderano raccontare.
Eh, sì, me lo raccontava Serena – ma affiora un po’ dalle testimonianze di tutti – come ad un certo punto siano loro a prendere il comando. Sono loro, coi loro occhi vitrei eppure vivacissimi e con le loro fattezze, che inavvertitamente finiscono con l’assumere quasi un moto di vita propria; sono loro, questi pinocchi impastati col corpo e con le anime dei loro costruttori/manipolatori, ad imporre la propria storia.
E se tutto questo ci parla di Collodi, dice però anche del cartesiano monito a ché sia il Soggetto ad imporre il proprio metodo all’Oggetto – monito, che qui viene meravigliosamente ribaltato in quel mondo magico che il Teatro, di Figura, soprattutto, è. Perché se il teatro altro non fa che portare in scena il vero, pur nella consapevolezza di una finzione, che però crede rivelatrice – a detta di alcuni -, il Teatro di Figura riesce a concedersi il lusso di giocare in maniera ancor più dichiarata e radicale – e, giocando, come il bimbo nientzscheano, a (ri)creare il senso delle cose.
Se ne ragionava con Carolina Moncaleano, giovane artista visiva trasferitasi a Lisbona, che, alla mia provocazione sulla comparabilità di due forme teatrali apparentemente tanto differenti, quanto sembrerebbero esserlo il Teatro di Figura, appunto – nella sua artigianalità preziosa e quasi arcaica – e le nuove forme, che sperimentano nella direzione della robotica teatrale, candida, rispondeva: “Ma cosa vuole, in fondo, l’essere umano, se non l’immortalità? E cos’è, l’Arte, se non un tentativo di prolungare il più possibile la nostra eco? E cosa, le marionette, se non una sorta di manufatto, di prolungamento di sé che ci consenta di vivere e raccontare altre vite?” – questo, il senso: le parole sono mie.
Mia è pure la considerazione che, giocare, ha anche il non sotto valutabile pregio di riuscire a parlare vis-à-vis al nostro bambino interiore – il fanciullino di pascoliana memoria… – e chissà che non riesca a scardinare quei meccanismi di difesa, che l’adulto socializzato ha dovuto imparare ad erigere. Questa, per me, la meraviglia di tutto il teatro di figura, con gli oggetti o su nero.
E se, a sentirli raccontare uno ad uno, sembrano rilucere come cangianti cristalli, nella visione d’insieme quel che ne vien fuori è di un portentoso caleidoscopio: a ciascuno, poi, trovare la combinazione e le suggestioni più consone alle proprie inclinazioni.
Ed ora, d’un sol fiato, tutte le storie.
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