In purezza: quel performante perturbante Pinocchio di Teatro del Carretto

“Pinocchio” della storica compagnia Teatro del Carretto è lo spettacolo in cartellone al Teatro Menotti, fino a domenica 9 febbraio. Un Pinocchio “in purezza”, quanto a fedeltà al testo originario, eppure decisamente sui generis. Senza nulla lasciar trapelare dal lapidario e, proprio per questo, sibillino titolo, offre al pubblico un viaggio davvero singolare e perturbante nella riscrittura, ad opera di Maria Grazia Cipriani, del celeberrimo “burattino” collodiano.

Distonie

La trama la conosciamo tutti – o, meglio, tutti conosciamo, o crediamo di conoscerne, quanto meno gli episodi salienti. Fin dal primo quadro, però, quel che ci si para davanti è qualcosa, che ci fa strabuzzare gli occhi, obbligandoci ad attivare le celluline grige, per dirla alla Poirot.

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Già la scenografia di Graziano Gregori – cofondatore, insieme alla succitata Cipriani, del nucleo originario della compagnia – ha un qualcosa di sinistro: uno spazio vuoto, delimitato da un poliedrico recinto di plumbee pareti girevoli. Da qui vedremo ora irrompere, ora sgusciare, in quest’ideale arena, personaggi dal pallore lunare e dalle surreali movenze di automi. Le luci fredde e le nuances rarefatte, per la gran parte dello spettacolo, illuminano attori, in abiti quasi sempre color gesso, dalla strepitosa prossemica artaudiana e dalla performatività così precisa, esatta e ipnotica, da rievocare il mito della super marionetta. Così, complici anche le teste di animali, le mascherate e gli abiti pur minimali, ma dalla connotazione forte, in modo quasi subliminale, fin dall’inizio, ci ronza in testa lo shakespeariano: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”.

E non è un caso se, fin dalla seconda scena, mentre impazza quel “Ridi, Pagliaccio…”, che tornerà, a più ondate, nel corso dello spettacolo, si suggella la fratellanza fra Pinocchio e le marionette di Mangiafuoco – quella stessa familiarità in grado di trasformare ogni personaggio in un fantoccio, dopo aver, per contro, donato grazia e cuore a quei manichini di legno.

Un gioco di risacche

È come se si fossero individuati alcuni focus drammaturgici e, in forza di quelli, si fosse poi deciso di giocare a rimpiattino col pubblico: dargli spago per poi puntualmente riacchiapparlo. Così, del resto, fa, fin dalla prima scena, anche l’impresario del circo, nel tentativo di addestrare Pinocchio trasformatosi in asino nel Paese dei Balocchi. Smontare per poi rimontare, tradendo, talvolta, la cronologia originaria per far affiorare quella di senso.

Se il racconto di Pinocchio che si brucia i piedi davanti al camino, infatti, viene spostato come terzo quadro (quindi dopo quello di Mangiafuoco), ad accogliere il pubblico è la spiazzante scena dell’impietoso addestramento del Pinocchio ciuchino a suon di furiosi schiocchi di frusta. E se questo patchwork rischia di confonderci il piano dei ricordi, di certo non può che attivare quello della domanda. È come se ci venisse detto che il primissimo imput è quel piega la macchina, attraverso cui si tenta di addomesticarlo – e, proiettivamente, addomesticarci. Solo poi viene l’essere della stessa sostanza dei sogni (un’allusione, chissà, anche a quella ritualità sociale, che, in fondo, ci rende tutti un po’ maschere). In fine, il ritorno a quel nocciolo duro, che intanto possiamo essere, nella misura in cui abbiamo un focolare – e, forse, un genitore indulgente -, da cui poter tornare.

Un’inestinguibile recherche

Una sorta d’inestinguibile recherche di un porto sicuro; la nostalgia di un Paradiso perduto, ma a cui il nostro bambino interiore non può mai davvero rinunciare. Meravigliosa, a tal proposito, la scena, del naso del Burattino, che si cosifica (con tanto di tratto distintivo della risata cristallina), quasi fosse quella, la sede, in cui si annida l’io bambino ancora ignaro del bene e del male. Eccolo, in fondo, in senso, delle marachelle di Pinocchio: il deresponsabilizzante pensare di potere fare qualsiasi cosa, nell’illusione di infiniti domani, intatti davanti a sé.

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Torna a più riprese, questa sonora cascata cristallina, dalla ilarità contagiosa, come per converso a più riprese torna quel suo mantra: “Babbino, se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi son andate a traverso!”, a cui fa da controcanto drammatico l’aria pucciniana “Oh, mio babbino caro!”

In purezza

Per il resto, sì: un “Pinocchio” in purezza, quello del Teatro del Carretto. Coraggioso nel recuperare tutto il noir già presente nell’edizione originaria, forse perché, come ha scritto Chesterton: «Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere».

Così, la Fata Turchina, come già nell’originale collodiano, inizialmente è una bambina morta (per poi ricomparire, dopo la successiva morte per crepacuore, a causa della dipartita di Pinocchio, come una donna, ovvero, pur in altra accezione, la morte della bambina che era stata). Non meno cruda risulta la scena dell’impiccagione del burattino per rubargli gli zecchini nascosti in bocca – con tanto di cappio calato dalla graticcia. Molte altre, le scene brutali alla homo homini lupus, quali quella della disempatia di Mangiafuoco verso le sue stesse marionette, che senza alcuno scrupolo avrebbe reso legna da ardere per cucinare il suo montone. Anche Lucignolo. Raffigurato semplicemente di spalle mentre fa rimbalzare una pallina di gomma, la sua ripetitività, perentorietà e imperturbabilità, alla lunga, risultano non meno disturbanti della trasformazione del Burattino e della vicenda del circo – ivi compresi l’azzoppamento e poi il lancio in mare con tanto di zavorra.

Il Grande Assente

Coraggio, sì, ma non minor pregio di questa messa in scena è la visionarietà. Così Pinocchio qui diventa anche voce narrante, spesso in modalità opera (buffa), delle proprie disavventure, a quello, che di fatto resta il Grande Assente: Geppetto. Invocato, cercato e benedetto, di lui altro non vediamo che la giacca indossata da Pinocchio sulla via della redenzione e quella frase – svelata, essa pure, a posteriori – originante il suo progetto: «Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno; ma un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo».

Eccolo, il convitato di pietra di quest’esegesi forse un poco psicanalitica. Adombrato, chissà, nei suoi antagonisti – Mangiafuoco, per un verso, e l’Impresario del circo o il Giudice e tutte quelle figure, che, pur dovendo impersonare la regola, di fatto poi non fanno che plasmarla ad usum sui… in fondo Fatina compresa, i cui soli modi per ottenere obbedienza sembrano essere la lusinga (con le palline di zucchero) o la manipolazione (con la pantomima del funerale) -, pur tuttavia brilla per un’assenza tanto struggente, da sciogliersi in lirica.

Bravissimi, gli attori, dalla performatività fluida nel farsi credibilissime marionette per poi sciogliersi in ogni sorta di fisicità richiesta dalla partitura drammaturgica. Strabiliante Giandomenico Cupaiuolo, un Pinocchio costantemente presente in scena: generoso fino al punto di saltar nel fuoco indossando una testa d’asino, ma anche di mixare la voce del bimbetto col play back dell’opera lirica. Né lui soltanto: Elsa Bossi/Fata Turchina dalla comicità coinvolgente, ma anche credibilissima nelle varie sfaccettature e partiture anche fisiche del personaggio, e i poliedrici Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Carlo Gambaro, Ian Gualdani e Filippo Beltrami, a completare questo ipnotico generosissimo cast.