Ismene fra mito e psicanalisi
“Il complesso di Ismene”, drammaturgia e regia della psicologa Adele Falbo, è un testo che trova una sua quanto mai giusta collocazione all’interno del progetto DonneTeatroDiritti – attiva nella stagione di Pacta dei Teatri | Teatro Oscar oramai da qualche anno.
Intanto il titolo: a strizzar l’occhio al complesso di Edipo, evidentemente, ma declinandolo nella variante ad hoc. Quindi è un’altra parte del mito, a cui si va ad attingere, pur sempre nella convinzione che sia in quei racconti ancestrali che si annidi la coscienza collettiva.
Ciò su cui si fa focus, qui, è la condizione delle donne; e così ci si ricorda di Ismène – sorella di Antigone e figlia di Edipo giusto per la cronaca -, che diventa emblema della sottomissione femminile al potere maschile, in antitesi alla ribellione dell’eroina tragica, pronta a sfidare le leggi della polis pur di agire secondo coscienza e pietà. Uno scontro titanico fra due opposte Weltanschauung: la tacita sottomissione ad un modello muliebre accomodante – per forma mentis ed educazione – a far da sfondo, cornice e contraltare alla figlia minore del re di Tebe, cantata e declinata da innumerevoli rivisitazioni – da Anouhil ad Elsa Morante, fino alla recentissima di Elisabetta Vergani.
Qui, invece, si sceglie di rappresentare Ismene. I fari accesi sulla sua psiche, è Annig Raimondi ad interpretare la donnicciola, che a più riprese torna in scena, scusandosi, quasi, per il disturbo. “E’ permesso?”, lo ripete in più occasioni: ed il permesso che sta chiedendo, in fondo, è quello di esistere ed aver dignità di persona, più ancora che di prender la parola. E sciorina tutti i pur reali cliché, a cui ci hanno resi quasi avvezzi i numerosi episodi di cronaca – nonché le innumerevoli rubriche di approfondimento sulla violenza di genere. “Sono troppo distratta”, si scusa, addossandosi la colpa delle proprie inefficienze e minimizzando a proposito della reazione violenta del marito: “Sono io che mi faccio troppi problemi. Ma cos’è successo, in fondo? Niente…”; e ancora: “Non accadrà più: me lo ha promesso. Mi vuole bene, in fondo; mi vuole bene… E poi non posso rinunciare a questa parvenza d’affetto”, comincia a scricchiolare. “Come posso pretendere che mi ami come vorrei? Sono solo un’egoista! Mi vuole piccola? Mi farò piccola… un niente.”, ma intanto se lo rigira fra i denti quel: “…perché lui è piccolo”. Questi, gli squittii della donnicciola, di cui non a caso si dice: “Come un topolino in gabbia: consuma energia senza produrla”.
Nel suo subconscio, scenicamente reso con un agito al fondo di una scena vuota, si alternano i suoi fantasmi interiori. La bionda Petra/ Daniela Monico – bionda, come quella Barbie Gioielli Segreti, a tal punto bramata, da bambina, da farla sentire in colpa nei confronti del mite e fido orsetto Blabla; bionda come quelle ragazzine al cospetto delle quali avrebbe sviluppato una sorta d’invidiosa sudditanza psicologica – è una figura velata e fiabesca, che si sceglie di rappresentare come saggia e pacata, ma anche come avvinta e con testa e bocca intrappolate nel pur prezioso velo indaco, a tratti, a ribadirne la tacita sottomissione. Animus/Carmen Chimienti ci viene mostrata nella poliedrica alternanza anche dei ruoli maschili – compreso il dispotico gigionesco Hitler dai curiosi baffetti, che tanto strizzano l’occhio al dittature del chapliniano “Tempi moderni”. Ombra/ Lorena Nocera, invece, è la sua Anima Nera: quella con cui consumerà il duello cruciale nel suo cammino di vita-o-morte. Né manca il richiamo alla classicità, reso attraverso quelle due figure iniziali – e poi, ancora, a chiudere il cerchio, in chiosa -, vestite con tuniche verde-spavento – il volto coperto da maschere auree -, ad impersonare il coro: che sciorina l’incipit della “Genesi” a ricordare la divina inferiorità della donna. Un viaggio iniziatico di emancipazione: da Eva-costola di Adamo a lui sottomessa per divina imposizione, quest’ Ismene sembra volersi librare, attraverso un percorso di autocoscienza, verso una moderna e consapevole Maria, assunta in cielo: animo e corpo. Forse perché solo nella sintesi, si può cercare se non un equilibrio, una traiettoria: una sintesi che non è solo quella dell’autocoscienza femminile, ma anche quella di un mondo non più schierato nella dicotomia uomo/donna. “So che la strada è quella, anche se so che inciamperò. Cos’è l’amore? Forse sapere cosa non è, è il primo passo per scoprirlo”, conclude. Poco prima soltanto, risvegliata dalla voce prepotente, che le intimava di respirare, aveva ricordato: “Mi sembrava di essere in un vortice, dove non distinguevo il bene dal male. Sono sempre stata reticente, perché i miei guai non interessavano. Ma un amore che umilia non è amore: il fuoco deve illuminare e non bruciare…”, che accende uno sguardo differente su quel lumicino, con cui si era aperto lo spettacolo e con cui si conclude: appoggiato, tremulo, a bordo proscenio dalle figurina esile di Ismene/Annig Raimondi. Quasi un’offerta votiva: un augurale fuoco, diversamente ‘sacro’, nel fitto di una tenebra nuovamente primordiale, in cui, forse, tutto è ancora di nuovo possibile. E poi probabilmente anche un tributo di memoria alle cadute in questo cammino di sopruso ed emancipazione.
Un lavoro chiaro, pertanto, nelle intenzioni: quasi per tesi; ed una messa in scena che gioca gli spazi del palcoscenico nelle due differenti profondità, per lo più. Ismène si muove quasi sempre nell’orizzontalità del proscenio, rischiarata da luci, che includono anche il pubblico in sala a sottolineare l’elemento realistico e di condivisione di una situazione attuale e comune. E’ vestita con un anonimo tailleurino blu, forse volutamente un poco datato datato, da cui irrompe l’anonimato di una situazione, che probabilmente non è così distante da noi; o, meglio, dalle nostre madri, a giudicare dal taglio sartoriale. Ma poi è in crescendo: il clinamen drammaturgico la vede evolvere dalla condizione di timida vittima connivente a persona consapevole pur nella sua vulnerabilità – la variazione vocale, ce lo dice: in modo netto. Nella profondità del palcoscenico, invece, l’agito subconscio della donna: è lì che si agitano i suoi demoni, avvolti dal buio di scena, puntualmente rischiarato a dar voce ai singoli personaggi. E’ lì che si creano le suggestioni visive più accattivanti, complici i costumi di scena, ma anche le luci, appunto, i movimenti coreografici e quella candela fioca, simbolo di una resistenza strenua: fragile, certo, ma indomita come spesso sanno essere le donne.
Resta un dubbio: che questa pur ben orchestrata operazione non arrivi a tradursi del tutto in una fruizione altrettanto fluida per il pubblico. Complice forse un registro recitativo, che continua a demarcare lo scarto fra finzione e realtà, l’impressione è che permanga una certa distanza col mondo. Poi ho avuto modo di visionare un demo, in rete, di questo stesso spettacolo in un adattamento differente: ed è lì che ho capito che forse un’impostazione meno teatralizzata avrebbe giocato di più a vantaggio di una tematica, che probabilmente appartiene troppo alle cronache attuali per poterla riconoscere e sentire in una dimensione così ‘artefatta’.