“Kings”: a lezione da Alberto Oliva
Dopo “Le Regine”, con “Kings” Alberto Oliva torna a dirigere uno spettacolo che ci racconta, ancora una volta, di uno scontro al vertice. Così la lunga tenitura al Tertulliano – dal 5 al 22 novembre -, non può non richiamare alla mente la drammaturgia di Paolo Bignamini in scena nella passata stagione al Teatro Oscar. In “Kings” la riscrittura della tetralogia shakespeariana è affidata a Michelangelo Zeno, che sceglie di condensare i quattro drammi storici – “Riccardo II”, “Enrico IV”, parte prima e seconda, ed “Enrico V” – nella cifra densa del potere inteso quasi come un veleno. “(C’è un) intruglio mortale di sangue, sudore e lacrime – mette in bocca allo stesso Riccardo II – in quella corona, che stringe le loro teste”. Un elisir di follia, dunque, che intossica chiunque se ne accosti, ustionandone il senno e vanificandone le strategie di dominio. Questa, la cifra comune alle due pièces. Per il resto, mentre ne “Le Regine” uno spazio circolare – metafisico monito di quella materna accoglienza che tutto avvolge, ingloba e pacifica – diventava invece surreale circo delle grifagne baruffe fra i personaggi femminili, in “Kings” lo spazio è reso nella sua ortogonalità pragmatica dall’orizzontale – e poi verticale – éscamotage di un’impalcatura a fondo scena, simbolo della sempiterna inconcludente fabbrica, in cui ogni potere finisce fatalmente con l’esaurirsi. Due modi differenti di trattare un medesimo tema: là, ritagliandolo con mani accorte attorno alla tematica femminile, qui, tranciando di netto, con piglio autoritario – più schiettamente maschile… -, zoomando sulla differenza strutturale fra un potere ereditario ed uno elettivo.
E’, questo, infatti, il focus drammaturgico. Certo, poi entrambi saranno ugualmente testardi nel non prestare ascolto al seguito dei consiglieri, di cui pure si circondano. Ma se in Riccardo II ancora brilla la scintilla dell’idealismo del sovrano ‘ispirato’, Enrico IV è a tutti gli effetti uno che si è fatto da sé e che non solo non fa sconti ai suoi sottoposti, ma sembra quasi godere nel sottile esercizio di una perfidia, che sa di rivalsa più che di magnanima pietas. Uno per tutti: l’episodio in cui la dama di corte invoca indulgenza per il figlio e si vede sbeffeggiata oltre che disattesa nella sua preghiera; e non è un fatto di ‘genere’: la feroce arroganza del sovrano parvenu non distingue che fra la propria Sovranità ed il restante mondo. Eppure al di sopra della sua testa c’è ancora qualcosa di ulteriore: quel destino impietosamente cieco, ma perequativo, che trasforma il futuro Enrico V da giovinastro perdigiorno, a machiavellico statista, a tal punto improvvisamente smaliziatosi, da calarsi nelle vesti – anche nel senso letterale del termine – di una ‘Iena’ alla Tarantino.
Torna in mente la massima: “Il potere logora…” – quanto struggimento in quel rapporto di furioso amore/odio coi propri sudditi, declinato in modo diverso dal ‘buon’ Riccardo II e dall’arrogante e perfido Enrico IV! E, subito dopo: “(Il potere logora)… chi non ce l’ha”, chiosava un arguto statista dello scorso secolo. E, forse, è questa maschera dissacrante, il beffardo chador, sotto cui chi detiene il potere sembra votato a camuffarsi, nonostante tutto.
Pregevole, quindi, il progetto nel suo intento: stigmatizzare le dinamiche cratologiche. Non che ci dica nulla di nuovo, tutto ciò: e, però, talvolta ha pure un senso civico – se non per forza espressamente politico e partitico -, dirlo ad alta voce, smascherando la nudità del re, con cui tutti si complimentano per la preziosa magnificenza dei abiti nuovi. E, però, mutatis mutandis, allo stesso modo forse è qui ugualmente doveroso sottolineare un analogo iato: quello fra la tensione di un progetto così ambizioso – portare in scena niente di meno che la versione shakespeariana delle Enriadi: e farlo nel breve volger di clessidra di un tempo che si aggira attorno all’ora o poco più – e, per converso, una messa in scena, che inevitabilmente privilegia l’intento didascalico, finendo col mortificare, forse, le specificità recitative dei singoli attori a vantaggio di una narrazione corale, imperniata sul quel dato focus. Un esempio per tutti: Enrico Ballardini, qui un Riccardo II, che solo a tratti brilla nella luce dell’idealità regale; eppure chi non lo ricorda nella straordinaria tenitura di “Modì”, un paio di stagioni fa al Teatro Leonardo? E chi abbia avuto la fortuna di vederlo in “A tua immagine” o negli altri spettacoli di ‘cabaret teologico’ con gli Odemà non può non interrogarsi sul senso della sua presenza qui, in un ruolo oltre tutto da comprimario. Lo stesso Giuseppe Scordio/Envico IV – di fatto fulcro narrativo e protagonista assoluto – risulta appiattito sotto il peso delle azioni da compiere e delle battute da porgere, facendoci in qualche modo scordare che sotto tutto ciò di certo c’era un’urgenza – ma che oramai non traspare più. Ed idem dicesi degli altri attori, che solo a tratti guizzano, in singole scene o fugaci passaggi azzeccati: Federica D’Angelo, Martino Palmisano e Paolo Grassi. Discorso differente per Piero Leonardon e Angelo Donato Colombo, a cui, complice forse anche il differente registro assegnato loro da quel mirabile gioco di ‘alto’ e ‘basso’, in cui eccelleva il bardo, la drammaturgia sa ritagliare finestre di ‘alleggerimento’, che davvero colpiscono nel segno, pescando nel canone del comico, ma anche del grottesco e del popolare con frequenti sfondamenti della quarta parete e attingendo ai stilemi della commedia dell’arte. E tutto questo sedimenta e monta, tant’è che il giovane Colombo finisce col risultare, dei tre, il sovrano più credibile, in quel suo essere sinolo e sintesi dei due antitetici modelli dei precursori.
Luci, movimenti scenici, prologo ed epilogo resi attraverso una voce fuori campo, musiche e costumi: tutto contribuisce ad una esplicitazione d’intenti, che non dico non colga nel segno, ma forse risulta più adatta ad un pubblico maggiormente bisognoso di essere accompagnato per mano. Come non notare la purpurea veste messianica indossata da Ballardini/Riccardo II, che fa di lui il sovrano ‘inattuale’ sovrastato dall’homo novus, nonché la vittima sacrificale di un mondo in transito? Ed il suo essere scalzo immediatamente ce lo fa associare a Giovanni Battista – non a caso ‘(inascoltata) voce che gridava nel deserto’, nonché colui, la cui testa sarà servita su un piatto d’argento… -; ed il mantello nero, poi, si scioglie in un lugubre sudario. Suggerimenti preziosi, questi: sì; e, però, resta ancora il dubbio che una recitazione un po’ più spinta e caratterizzata ed una conduzione registica capace, invece, di fare un passo in dietro, forse sarebbero state in grado di aprire al pubblico il giusto spazio di fruizione.