“La città dei Miti” di Teatro dei Borgia: luci ed ombre
Non è soltanto una compagnia teatrale, Teatro dei Borgia: è un progetto, una filosofia del teatro, un atto fuori dalle logiche produttive mordi-e-fuggi e dalla tirannide degli spettacoli per-una-stagione soltanto; è, come si autodefinisce, un’opera per disturbare il mondo con il teatro d’arte, e viceversa, che tanto sa di quel teatro che sopravvive come divino anacronismo, di cui Orson Welles.
Fondato ufficialmente nel 2013 da Elena Cotugno e Gianpiero Borgia, l’imprinting è quello del Teatro d’Arte di Konstantin Stanislavskij appreso dai maestri Vasil’ev e Alschitz. Dopo i cosiddetti spettacoli della vita precedente (un primo esordio già nel 2001 con Diario di un killer sentimentale da Luis Sepulveda), nel 2016 ecco quel “Medea per strada” a inaugurare il progetto “La città dei Miti” ovvero una trilogia di spettacoli, ciascuno a se stante, su altrettanti personaggi mitologici rivisitati.
“La città dei Miti”: premesse teoriche
Già, ma cosa si tratta? Lo spiega bene Stefania Minciullo, operatrice culturale di rete presso la compagnia, nell’accogliere il pubblico. A Milano, in fatti, gli spettacoli resteranno in scena, dal 20 settembre al 2 ottobre 2022, negli spazi dell’ex clinica psichiatrica Paolo Pini, nota per il pluriventennale festival estivo Da vicino Nessuno è Normale, ad ospitare, qui, un passaggio della stagione teatrale di Zona K. La metafora è quella del triangolo – scaleno a sottolinearne le diversità/specificità di ciascuno dei lati -, usata dallo stesso Gianpiero Borgia:
“Il primo lato del nostro triangolo è l’individuazione di un’analogia tra un personaggio della mitologia classica e un suo corrispettivo contemporaneo […] (Medea/prostituta straniera; Eracle/genitore separato; Filottete/malato abbandonato); il secondo lato è costituito da una tematica socio-politica cogente, sentita come urgente dalla compagnia e magari ignorata, rimossa, negata dalla comunità […]; il terzo lato è la progettazione e realizzazione di una performance di teatro d’arte, che rompa il meccanismo canonico scena/platea, che ricerchi una modalità esperienziale per gli artisti e per gli spettatori/partecipanti, il più possibile analoga, quanto meno per intensità, a quella dello spettatore tragico dell’antichità.”
Progetto ambiziosissimo
Progetto ambiziosissimo, quindi, questo La città dei Miti. Non solo si fa carico della riattivazione del Mito – si badi bene: non di una sua semplice trasposizione contestualizzata, bensì di una vera e propria attualizzazione nell’hinc et nunc. In più, aspira niente di meno che alla κάϑαρσις ovvero al momento apicale della fruizione/partecipazione alla tragedia greca, in cui il pubblico, rivivendo in prima persona gli strazi, le ineluttabilità e le ingiustizie degli eroi, solo protetto e schermato dal medium teatrale, riusciva a spurgare passioni, che, non incanalate, avrebbero potuto esplodere in ben altri epiloghi. È la potenza evocatrice, taumaturgica e intrinsecamente manipolatoria della Parola e del Teatro, suo succedaneo fisico e tridimensionale (e per ciò stesso fruibile in maniera più democratica: ovvero anche da quel demos illo tempore spesso non alfabetizzato), il cui gran burattinaio alla stessa maniera tira i fili di attori e pubblico in assemblea; è l’arte dell’hypocritès, che questa manipolazione poi la cavalca, domina e modula nel rapporto col pubblico.
“Medea per strada”
Forte delle oltre 350 repliche, la Medea interpretata dall’inarrivabile Elena Cutugno, da Euripide mutua la cifra della straniera – ovvero di colei che, abbacinata dalla prospettiva di una vita migliore, finisce con l’abbandonare la sua terra natia, per ritrovarsi a fare i conti con una realtà ben diversa da quella che si era prefigurata.
Ce la svela a poco a poco, la sua storia, questa Medea contemporanea: irrompe sullo sgangherato pulmino, dove sta già viaggiando uno sparuto pubblico di soli sette spettatori, e inizia a parlare – di tutto, di niente, senza un apparente bandolo o filo conduttore, alludendo alle bellezze di un’Italia, che, in quel momento, ci sta sballottando per estreme periferie e raggelanti raccordi autostradali. Un fiume in piena, mentre, fingendosi lei stessa passeggera, cerca di attaccar bottone, come si dice, quasi a ingannare il tempo del viaggio. Un viaggio dentro al viaggio dentro al viaggio: perché se già ogni rappresentazione teatrale è, per se stessa, un viaggio (quanto meno, in senso emozionale e metaforico), qui lo diventa anche in senso fisico (per tutto il tempo della performance siamo sballottati attraverso i luoghi anonimi e periferici, dove quotidianamente si consuma il traffico della prostituzione), oltre che evocativo (il viaggio di lei dalla Romania a Bari e quell’altro, molto più sottile ed infido, attraverso le spirali che la conducono dall’accettazione alla follia).
“E intanto fuori piove” recita il testo di una canzone; ma sabato 24 settembre fuori pioveva davvero – a patinar il tutto di un grigio verità ancor più glaciale e plumbeo, stridente come non mai col maquillage ostentatamente acceso della protagonista e con quel suo modo di fare, intenzionalmente chiassoso e quasi urtante. Perché, alla fine, il pubblico sa di esser tale – e, per quanto l’attrice sia davvero bravissima, nemmeno quest’accuratissima riproduzione teatrale riesce a sfuggire alla convenzione del patto di finzione. Così ci racconta la sua storia e a noi, un poco in parte, pare quasi doveroso aiutarla, sostenendola in quella che, senz’anche conoscerla, sappiamo esser una partitura. E poi quegli squarci di verità – qualcuno abbassa gli occhi, ad altri diventan rossi e traboccan lacrime… – sapientemente sostenuti dal teatrino degli oggetti tirati fuori dal suo borsone alla Mary Poppins e da quelle canzoni… (come non ricordare Nietzsche e il suo pensiero a proposito del dirompente/manipolante potere emozionale della musica?) fino all’epilogo della tragedia (non è mistero il feroce figlicidio della protagonista del mito classico), dove il velo di Maia si squarcia: “Credevo di voler partecipare alla vostra felicità e invece volevo partecipare alla vostra follia”, sibila, con quella sua potenza evocativa, che davvero ci avrebbe fatto temere il peggio, se non fossimo stati confortati dalla certezza del patto drammaturgico. Poi lei scende e mentre nelle orecchie ronza ancora quel suo: “Tu sei straniero e devi pagare: e non perché hai fatto questo o hai fatto quello… No, devi pagare perché occupi spazio e quello spazio non è tuo”, attraverso le tendine sbiadite del pulmino vintage, a seguire, lo sguardo inciampa sulle beffarde scritte: “RIQUALIFICAZIONE Centrale Termoelettrica” e, scarabocchiato su un muro, quasi a chiosa: “Distruggi ciò che ti opprime”.
“Eracle, l’invisibile”
Anche questo d’ispirazione euripidea, la parte del leone, qui, la fa un ottimo Christian Di Domenico, stavolta sulla terra ferma della sala da pranzo di Jodok, che profuma già degli odori della cena. L’ossatura drammaturgia è la stessa: inizio “scoppiettante” e poi un climax discendente, nonostante la tenacia di anime, che proprio non ce la fanno a darsi per vinte e cercano invece di brindare col sempre più rosicato mezzo pieno, che resta loro nel bicchiere. L’invincibile Eracle, qui, assume le sembianze di un giovane di belle speranze e di provenienza certo non agiata, che ce la mette tutta per ritagliarsi il suo posto nel mondo accanto alla ragazza di buona famiglia. L’esito delle sue fatiche? Una scelta vocazionale per la docenza, coronata da una carriera alla Prof Keating (quello de L’attimo fuggente, per intendersi) e, come l’illustre collega del film, un precipizio, che, complice, qui, anche i suoi doveri di sussidio economico di padre separato, lo precipita ai limiti della povertà. Stessa interazione teatrale col pubblico e con la radio/musica, stesso éscamotage di un’azione teatrale di accompagnamento (la preparazione, qui, delle buste-pasto per i senza tetto, mentre in forno cuoce davvero il pane), visti poco prima in “Medea”. E, frattanto, anche qui, fra il serio e il faceto, vengono lanciate stilettate a certe dinamiche del sistema, ammiccando a quella stessa barca, terreno comune col pubblico, non certo evocabile, se non in minima parte, dalla prostituta Medea.
Ed anche questo è un atto politico: un modo per riflettere e un j’acuse, in cui pare proprio l’incontraddicibilità dell’evidenza del racconto testimoniale ad azzittire ipso facto eventuali obbiezioni. Già perché come avrebbe esplicitato ancor meglio Daniele Nuccetelli (il Filottete del terzo ed ultimo atto di questa trilogia), elemento fondante e irrinunciabile di questo progetto di attori/reporters è l’incontro/frequentazione con le realtà, che si fanno carico della problematica sociale affrontata nel singolo spettacolo; così, non importa se la storia di questo Eracle sia reale oppure inventata: in filigrana, la vicenda esistenziale di tantissimi degli utenti di determinate associazioni e comunità incontrati – e, in fondo, qualcosa che potrebbe accadere a ciascuno di noi.
“Filottete, il dimenticato”
Se tutti conoscono le storie di Medea o di Eracle, quello di Filottete è un mito meno noto. Portentoso arciere al seguito di Ulisse, fu abbandonato dai compagni su un’isola deserta in seguito all’infettarsi di una ferita, che gli cagionò sofferenze dilanianti, con conseguenti grida e miasmi insopportabili per i compagni. E poi, puntuale, la profezia, che rivela che la guerra non avrebbe potuto esser vinta senza le armi di Filottete; ed ecco che, dopo dieci anni, tornano a riprenderlo, incuranti dei pericoli, a cui lo avevano esposto nell’abbandonarlo solo e ferito su quell’isola. Se questo racconta Sofocle, il Filottete dei Borgia, abbandonato lo è sì, ma non altrettanto candidato ad esser riportato nell’umano consesso. Già perché questo novello Filottete, interpretato da un Daniele Nuccetelli dalla bravura commovente, è internato in una RSA a causa di una malattia neuro degenerativa – demenza a corpi di Lewy, scopriremo poi. Alternando la leggerezza di chi voglia accattivarsi il suo interlocutore alla rabbia maledicente di chi intuisca che la sua prece non verrà esaudita, ci implora di portarlo via con noi – e, frattanto, lui pure, snocciola la sua storia: il rapporto conflittuale col figlio, lo scivolar via della sua carriera d’attore e il solo amico rimastogli, Bill, quel pesciolino rosso, che pur non esiterebbe ad abbandonare, se potesse tornare alla sua vita di prima. Eppure è a lui, che racconta il suo mondo popolato da allucinazioni sia fisiche (dolori lancinanti, ma senza motivazione medica), che visive (convinzione di conoscere personalmente divi e personaggi della tv e microzoopsia ovvero, in questo caso, visione di esserini minuscoli dalle sembianze umane, che, pur non incutendo timore, spiazzano il paziente, al punto da iniziare a dubitare della realtà: e questo ormai siamo noi, il pubblico, per lui attore un tempo chiamato a recitare nei più prestigiosi dei teatri).
La location, in questo caso, è la sala d’aspetto di quella che fu una psichiatria – le pareti arancione carico, ma non vivace, cozzano con quell’uomo grigio, per tanti aspetti diverso dai coloratissimi super(anti)eroi dei due spettacoli di cui sopra: eppure chissà se non sarebbe stato forse ancor più potente visto a teatro, in quello spazio inviolabile, che è la scatola nera del palcoscenico, forse meglio capace di restituirci la sua – o, invertendo il punto di vista – la nostra inarrivabilità – in fondo reciproca: sempre e tanto più di fronte a questo genere di malattie…
Ci parla di Umanità Violata, Filottete, e di quell’isteria di sopravvivenza, in cui tanto riecheggia la chiosa di Medea – mentre la sua, di chiosa – concettuale più che cronologica – fors’è nascosta in quel: “Chi non riesce a morire nel tempo giusto è condannato a farlo in quello sbagliato” – stigma, in fondo, e corollario di tutto quel suicidato dalla società, detto da Artaud a proposito di Van Gogh.
Considerazioni conclusive
In filigrana a Medea, Eracle e Filottete, la trilogia di Teatro dei Borgia (per la drammaturgia di Fabrizio Sinisi e coproduzione con Centro Teatrale Bresciano e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia), percorre tre zone d’ombra/rimozione della contemporaneità. Sono attraversate da (anti)eroi, il cui supplizio quotidiano è quello di doverselo guadagnare – e riguadagnare… – il diritto di cittadinanza. Non importa che si tratti di non-luoghi, in cui, potendo, nessuno sceglierebbe di abitare; nonostante il loro clamore, humor, petulanza, questi personaggi, stridentemente invisibili, abbagliano per il bisogno spasmodico di uno sguardo di riconoscimento e per ciò stesso legittimante.
Eppure i tre attori non ce li ficcano mai davvero nei nostri, i loro occhi, a stanarci l’anima. Composti e misurati – nella tecnica, ché la prossemica, invece, recita in direzione ostinata e contraria -, attraverso quei loro occhi, a distanza spesso ravvicinatissima, riusciamo a indovinare tutti i diavoli, che si agitano loro in petto; e, se una lacrima scende dagli occhi del pubblico, chissà che non sia un lampo di evocazione auto biografica, più che di autentica ed empatica pietas. Complice, forse, quella loro recitazione introflessa – primariamente attenzionata al demone, che li possiede, così pare -, la sensazione è che la prossimità quasi tangibile col pubblico, pur dichiarato presente e interagente, forse non basti a far scattare il tranfert teatrale.
Emotivamente, è come il rapimento estatico di fronte a un quadro straordinario: un motore, che muove, pur restando immobile.
E che ne è, allora, dell’intento politico della riattivazione dei miti, se resta ancora cristallizzato al di qua di quel farsi comunità – sola vis capace di forzare il dilagante individualismo della contemporaneità? Eppure nulla di tutto questo riesce neppure a scalfire il paziente, prezioso, laborioso, protratto e instancabile lavorio di costante visione e revisione di ideatori, autori, registi e attori, che, posseduti dal binomio Errore-e-Ricerca, instancabilmente si prodigano nell’inesauribile afflato al miglioramento – che, come la ricerca della perfezione, è di per sé compito asintotico ed inesauribile, che solo una compagnia/progetto estranea ai tempi e alle logiche di mercato può provare a sfiorare.
E, se queste sono le premesse, allora il progetto può dirsi anche politico, nell’accezione di intento a scuotere la polis – ovvero le coscienze singole e la coscienza collettiva -, risultato massimo, assieme a quello di testimonianza e memoria, a cui possa ambire un’azione performativa.