La dirompente Eco di Fondo che proviene dall’ “altra stanza”
Ideata già nel 2011 come passerella per compagnie indipendenti, da poche stagioni soltanto, la rassegna Nuove Storie ha trasformato Teatro Elfo Puccini nella location di un micro festival estivo a tema. La guida di Francesco Frongia, infatti, ha fortemente voluto dare un colore e una ben precisa linea tematica a ciascuna edizione.
Il titolo scelto per questa non facile edizione 2021? Diritto di Cronaca, azzeccatissimo in un mondo ormai assuefatto a continue esternazioni e social confessioni/professioni, ma che pure a volte non sembra distinguere la notizia dal pettegolezzo, il buon gusto dalla censura, la fakenews dalla provocazione.
In questa cornice s’inserisce “Sono solo nella stanza accanto”, frutto della sinergia produttiva di Eco di Fondo e Compagnia Caterpillar, rimasto in scena dal 28 giugno al 2 luglio. A precederlo, “Life”, produzione Brioschi/Spanò (pure in scena) sui primi casi di terrorismo anni ’70 in Italia e Germania e “Alfredino. L’Italia in fondo al pozzo”, produzione Effetto Morgana, in cui il drammaturgo nonché protagonista Fabio Banfo coglie l’occasione della vicenda del piccolo Alfredo Rampi per fare una disamina sull’Italia di quegli anni e su quegli strumenti di comunicazione di massa in qualche modo prodromi e responsabili della situazione attuale. A chiudere la rassegna sarà, dal 5 al 9 luglio “Le buone maniere” di Michele di Vito e con Michele di Giacomo, su fatti e moventi del caso, ancora una volta di cronaca (fine) anni ’80, che va sotto al nome di Uno bianca.
“Sono solo nella stanza accanto”
Il plot racconta una di situazione attualissima e assai diffusa fra gli adolescenti: le partite online fra coetanei. Talvolta esito di conoscenze reali – prolungate e inevitabilmente inverate dalla frequentazione, sia pur virtuale -, altre, invece, l’occasione prossima è il game. Possono creare competizione fra i ragazzi – come le sfide sportive – o collaborazione – come nel caso di certi giochi di ruolo, in cui si fa squadra per raggiungere un obbiettivo comune.
Di questa seconda natura è la situazione pensata da Tobia Rossi, giovane drammaturgo attento a tematiche delicate e a tema adolescenza.
Ben disegnata, la scena si apre immediatamente su una coppia di gamers alle prese col superamento dell’ennesimo livello di gioco. Tutto funziona. I pochi, ma essenziali oggetti di scena sono perfettamente funzionali a raccontarci – anche nella dichiarata cromia di giallo e rosso – le identità e, poi, vulnerabilità di quelli che parrebbero essere due normali adolescenti – nonostante quella sedia a rotelle -, protetti dietro al gioco loro avatar. Nella quasi penombra delle loro stanzette, le luci sono quelle dall’effetto freddo e intermittente dei video games. Il gergo, fra l’ironico e il sottilmente graffiante, è lo strano sleng che si mastica a quell’età, una sorta di esperanto inedito dal singolare potere identificativo e di affratellamento. E pure loro, il Stupeficium, il giallo e Wild Party, il rosso, sono disegnati con quelle studiate stereotipizzazioni, dietro a cui spesso i giovanissimi si nascondono ed etichettano reciprocamente: qualcosa a metà fra una scorciatoia di senso e un nome di battaglia, forse residuo del sublimato rito ancestrale di iniziazione all’età adulta.
Quel che colpisce è il climax
In quest’apparente normalità da routine – divenuti incontri fissi, le partite talvolta si protraggono per parecchio tempo -, inevitabilmente si consuma un percorso di avvicinamento, che, in fondo, è il probabile movente reale. Già, perché non è possibile trascorrere tante ore – sfidanti! – insieme, vivere – e a ritmo sincopato e adrenalinico – tante avventure, affrontando in modo simbolico i proprio limiti e paure, senza scivolare, piano piano, verso una dimensione di confidenza. E questo capita anche ai due protagonisti, la cui quasi orgogliosa estraneità iniziale a poco a poco si trasforma in un rapporto di intimità e sostegno reale, quasi ad inverare quel “Bro”, fratello, che, da intercalare generazionale, pare riappropriarsi del suo senso più autentico – ci viene infatti svelato provenire dal sanscrito bhrátár ovvero sostenersi.
L’occasione prossima è fornita dalla latitanza di un terzo gamer, Blue2003, che uno degli altri due inizia a sospettare possa essere il ragazzo suicidatosi a seguito di atti di bullismo. E non è tanto il pur “reclamato”, dalla drammaturgia, specifico fatto di cronaca – il suicidio del giovanissimo Michele Ruffino, il 23 febbraio 2018, gettatosi da un ponte a seguito di reiterati atti di bullismo. Quel che risulta davvero interessante è il modo di utilizzarlo. Si fa infatti grimaldello non solo e non tanto per affrontare la tematica del cyberbullismo – ivi compresa la liquida permeabilità vittima/carnefice –, ma, di più, nell’affondare in considerazioni altre. Si sofferma sull’equivocità del linguaggio e di quello iato – fatale, a volte – fra intenzione e parola o intenzione, maschera e parola, che sta alle radici di tutto il tragico – compreso il pur smorzato non detto cechoviano.
Regia e interpreti
Sono svariate le tematiche toccate – così, rapsodicamente, come spesso capita nella vita, ma con quel movimento a spirale inverante, che solo apparente sembra ripersi. Così come solo apparentemente funge da stacco emotivo – nella sempre attenta, accorta, delicata, misurata e ben centellinata regia di Giacomo Ferraù – l’utilizzo delle azioni sceniche mute. Oltre a fornire l’occasione per movimentare la di per sé staticissima scena, sortisce un subliminale effetto didascalico. E non è cosa da non sottovalutare, specie in uno spettacolo che, pur presentato in una stagione serale, di certo può esercitare un grosso appeal anche per un pubblico di giovanissimi.
E se drammaturgia e regia non si risparmiano – complici anche scene e disegno luci di Giuliano Almerighi e gli emozionali paesaggi sonori di Danilo Randazzo -, non meno gli attori in scena.
È immediatamente evidente che Edoardo Barbone (alias Wilde Party, il rosso in carrozzella) ed Eugenio Fea (Stupeficium, il giallo), ancorché giovanissimi, sono compagni di palco da sempre. Diplomati all’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 2018, non hanno mai smesso di lavorare insieme. Conseguito il titolo, infatti, con altri ex compagni di accademia, hanno dato vita e quella Compagnia Caterpillar, che li vede come una delle giovanissime realtà milanesi più interessanti, sia per bravura che per capacità organizzativo/produttivo/promozionale e cioè imprenditoriale.
E tutto questo non può non trasparire sulla scena. Pur nelle specificità delle diverse cifre attorali e caratteristiche dei personaggi, è (anche) la loro intesa – oltre all’indubbio talento, studio e disciplina -, che consente di raggiungere quel livello di confidenza e intimità, quasi, fra loro e col pubblico, senza il quale non si potrebbe pensare un lavoro così.
È la stessa caratura, del resto, a cui ci ha abituati la poetica, leggiadra ma non per questo leggera, della poco plus agée compagnia Eco di Fondo. Giacomo Ferraù e Giulia Viana, anche loro ex Accademia dei Filodrammatici, hanno infatti ormai maturato una propria cifra nel porgere tematiche spesso scomode e impattanti, ma con quel garbo e quella poetica delicata e commovente, presente fin dal primissimo “Orfeo ed Euridice”, splendido, atroce e delicatissimo spettacolo sull’eutanasia, scritto e diretto da Cèsar Brie, nel 2014.
I mille modi del Teatro
Andare a teatro per ciascuno ha un suo perché: tutti ugualmente legittimi. C’è chi ci va per divertirsi, chi per riflettere, commuoversi o semplicemente ritrovarsi in una sala, sentendosi parte di un qualcosa di irripetibile e unico, che accade in quel solo istante. Analogamente, c’è chi si emoziona per la danza e chi per la musica, chi per la performance e chi per la parola.
Ecco, io appartengo a questi ultimi. Intendo il Teatro come divertissemnet, sì, ma solo nel senso più alto, poetico, ma anche filosofico, etico e, a suo modo, politico e morale. E tutto ciò credo sia raggiungibile solo a fronte di parole importanti – che non siano retoriche, ma autentiche e capaci di un dialogo genuino col e sul reale -, di un’idea chiara e distinta – di quel che si vuol dire e di come si vuol arrivare a dirlo – e di una generosità attorale, che non può essere disgiunta da un’effettiva capacità, conquistata col tempo di una formazione rigorosa e costante.
Forse chiedo troppo… ma, quando capita di vedere che tutto questo accade, ci si sente ripagati di tanto rigore – chiesto, sì, ma anche auto imposto – in nome di un Teatro di parole e di Senso.