La sconcertante attualità della Dickinson

“La mia vita era un fucile carico…”, dimenticato in uno stanzino in attesa che il cacciatore venisse a prenderlo – e, di lì, il riferimento quasi profetico al suo esserne l’ ‘occhio giallo’: dispensatore di morte, ma, a sua volta, ingenerosamente escluso da un tal destino di morte… -: sono queste – più o meno – le parole e le allusioni, con cui s’inaugura l’ultimo sprint dell’omonimo spettacolo su Emily Dickinson, fino a ieri -03/11- in scena all’ Elfo Puccini.

Un lavoro interessante – sorprendente… -, in cui è immediata l’impressione di aver a che fare con un prodotto voluto, perseguito, preparato, costruito, frutto di documentazione – ovviamente -, ma anche di quella attenta acutezza, che sa essere capace di cercare – e di carpire – le suggestioni da dovunque provengano per poi restituircele lì: dove tutto sustanzia.

http://www.elfo.org/stagioni/20132014/lamiavitaeraunfucilecarico.html
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Così ci vengono riproposti tutti – in un prodotto teatrale corposo: nonostante la leggiadria, che emana, la figurina candida (e splendidamente abitata dalla brava Elena Russo Arman), che si agita, ci ammalia e lusinga, con la sua voce dai riverberi di sirena… – i ‘topoi’ letterari dell’autrice americana: da quell’amore, di cui non sappiamo nulla, ma che è tutto quel che sappiamo dell’amore – fin dall’incipit: la lettera alle “Care cugine…” o lo scambio epistolare intenso ed affettuoso con l’amata amica e cognata: “Soouusiieee…” -, alla critica verso una società conformista e puritana – “Mio padre è troppo impegnato con le sue difese giudiziarie per accorgersi di cosa io faccia. […] Mi compra molti libri, ma mi prega di non leggerli, perché ha paura che scuotano la mia mente” -, che ogni mattina “adora un’ eclisse” che chiama ‘Dio’ -di lì tutta la parte iniziale sulla ‘menzoagna’ e sul ‘teatro’… fino al celeberrimo: “Di’ la verità: dilla tutta, ma dilla obliqua”, alludendo a quella ‘laconicità’, che fu cifra della sua poetica, ma anche del Sit-im-Leben di un’America bigotta e spaventata dall’eco progressista rimbalzante da oltre oceano, minacciando le s(t)olide certezze di un puritanesimo senza possibilità di appello . E poi ancora: il lessico delle ‘piccole cose’, dietro cui si adombrano gli slanci siderali e metafisici della sua ricerca di senso – la metafora della circonferenza, che possiede ciò che circonda e ne è al contempo posseduta: ché è asintoto e vocazione ad un mistero centripeto, da cui è ammaliata, pur nel suo mantenersi equidistante in un moto ellittico… -, la sfida personale a Dio – e che sa tanto di Giobbe: in quell’inerpicarsi su per una scaletta di corda… -, il ritiro dal mondo – e la vestizione di una tenuta/negazione candidamente e cromaticamente austera… -, la sublimazione, forse, di una passione – e pulsione! – vitale, che – negata – si enfatizza: come scoppi di fucile destinati ad un’umanità ancora da venire… E l’esser ‘ri-chiamata’ – con quest’espressione, Emily, parlava della propria morte: che descriveva come segnata dal ronzio di una mosca, di contro allo iato fra la quiete della stanza ed il il silenzio dell’aria: in mezzo ai quali… il boato- o la poetica, post ‘mortem’ -dove, stavolta, si allude ad una sorta di ‘morte della coscienza’: un ‘tracollo nervoso’, quasi… – e l’interrogarsi sul senso della solitudine o della ‘celebrità’ – paragonata al volgar ed incessante gracidar di una rana… e che, forse, getta squarci di luce sul disinteresse a ché le sue opere venissero pubblicate… – .

http://www.elfo.org/stagioni/20132014/lamiavitaeraunfucilecarico.html
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Ma sarebbe presuntuoso, da parte di chi scrive, cercar di condensare in poche righe l’immensità evocativa di un’autrice quale la Dickinson; quel che mi preme raccontare, invece, è la ‘cura’ – parola desueta, forse, ma che mai torna attuale come nell’amore vocazionale, che, spesso, mi si offre a teatro -, che traspare da quest’allestimento: un’attenzione – costante – alla valenza simbolica – dalla succitata scaletta di ‘corda’, alle fuga verticale di lampadine (gli strali, con cui la poetessa cercava di colpire il suo ‘centro’? …ed il subitaneo occhio di un ciclone, che risucchia verso la Trascendenza. O che, dalla trascendenza, ci riaccompagna: adagiandoci nei suoi morbidi prati in fiore…); dai suoni assordanti, inaspettati e sincopati (‘inventati’ – dallo strofinio dell’archetto sulle corde della chitarra elettrica… – ma anche lungo la ‘circonferenza’ del piatto della batteria… – al rintocco di chicchi di sassolini che rimbombano, cadendo…), alla fessura – in un ‘nero’ di panno di lenci – /diaframma col mondo, in cui Emily virtualmente imbuca le sue lettere al mondo – mai scritte… – ed in cui essa stessa finisce con l’esser risucchiata, in un’azione scenica di sicuro impatto: e che ci parla di una ‘nascita all’incontrario’, che se è ‘morte’, per un aspetto, è, al tempo stesso la paradossalità dello schiudersi di una differente dimensione – ‘interrotta’: come le linee spezzate proiettate ben significano… – del suo percorso esistenziale. Di sicuro impatto, inoltre, le case-lanterne ed il delicato teatrino d’ombre cinesi, attraverso cui ci vien rivelato dei suoi affetti familiari: con una delicata dolcezza, felicemente reso da quell’éscamotage scenico-narrativo. Questo, mi premeva di dire; e la bravura – a tutto tondo – di un’attrice, che – qui – è anche ideatrice, regista e drammaturga – oltre che curatrice delle scene e dei costumi -; se un appunto, però, mi si consente di fare, è la poca empaticità emotiva, che arriva al pubblico: e, così, uscendo da teatro, pur avendo ‘capito’, di aver assistito ad uno spettacolo certo meritevole, è mancato quel ‘eroico trasporto’, che ancora mi aspetto di provare, dal momento che si spengono le luci… E, però: se fosse stato proprio questo, uno degli intenti drammaturgici? Restituire una coloritura emotiva che fosse non ‘passione’, ma ‘allusione’: ‘laconica’ e ‘siderale’…

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