Latini, Mangiafoco e il suo irrinunciabile ghiaccio pungente
Se la provocazione era: “Non c’è niente da vedere…”, arguto éscamotage autobiografico per accompagnarci fino al sottile distinguo fra un teatro di immagine e uno, invece, di immaginazione, allora Roberto Latini coglie a pieno nel segno. Col suo “Mangiafoco”, infatti, senz’altro ci colma lo sguardo di immagini dalla luminosa nitidezza cromatica e di quella compiuta bellezza, che può essere il risultato solo di una straordinaria cura e maestria di tutte le professionalità coinvolte. Eppure, quel che realmente fa è accenderci gli occhi, il cuore e l’impalpabile organo, oggi tanto in disuso, che è la capacità di farsi koiné – ovvero parte responsabilmente coinvolta in un qualcosa di più grande. E cos’è, questo, se non il sacro fuoco dell’arte e del teatro? Di più: non è forse ancor valido, il motto shakespeariano secondo cui Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori?
Non c’è bisogno di scrivere proclami per raggiungere un risultato simile.
A ciascuno il suo, avrebbe detto proprio quel Sciascia. Ma, soprattutto, la grande lezione che arieggia, in tutto lo spettacolo, è quella leggerezza “che non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto”, di cui scriveva Italo Calvino. Ed è proprio così – attraverso un gigantesco scivolo drammaturgico -, che irrompono in scena i suoi personaggi a loro modo in cerca d’autore.
Se il titolo dello spettacolo vi facesse pensare ad una qual si voglia sorta di riadattamento del romanzo collodiano, lasciate ogni speranza, oh, voi che entrate.
Il Gran Burattinaio, infatti, qui è quasi solo metafora della etero direzione, che fisiologicamente gli attori sono costretti a subire: dal copione e dal regista, certo, ma anche inevitabilmente da se stessi. Ed è questo che li accomuna a ciascuno di noi. Non hanno altra scelta, se vogliono preservare l’integrità del loro blocco più intimo e glaciale. Il mercimonio della dispotica e totalizzante arte scenica rischierebbe di annientarli. Sarebbero come pinocchi di ghiaccio esposti al braciere della casa paterna – non è, in fondo, la famiglia, la prima società naturale? – o, ancor di più, al rogo su cui Mangiafoco – la società, lo show business – vorrebbe arrostire il suo montone.
Tutto ciò è detto, in questo “Mangiafoco”, ancora una volta attraverso il gioco del teatro nel teatro.
Ormai quasi folgorato – da “I giganti della montagna” in poi, dalle stigmate dal Girgentano -, ecco che, dopo il “Teatro comico”, di nuovo Latini sceglie di portare in scena delle forme ibride. Sono gli stessi attori, che raccontano se stessi; eppure, nel farlo, sono drammaturghi, registi e gran burattinai della farsa, che poi vanno a d’impersonare. Né mancano l’ironia garbata o la visionaria sovrapposizione di simboli. Come ciascuno di noi fa nella vita di tutti i giorni, ora mettono a nudo le loro anime – come e quanto, ciascuno lo sceglie da sé -, ora, calzano le enormi teste giulive di Mickey Mouse e giocano a fare un pubblico conciliante. Ora recitano auto legittimanti estratti da quelle opere di formazione, che avevano sciorinato nel loro monologo di presentazione, ora invece si fanno dinoccolati ciuchini anonimi e interscambiabili o insostituibili protagonisti di ruoli, che sentono scritti quasi solo per sé.
Così, non hanno più bisogno di un Mangiafoco. Questi, del resto, non viene evocato attraverso il sonoro tremare di paura delle marionette del Teatrino delle Meraviglie; piuttosto, attraverso quella uggiolina, che ce ne restituisce un’evocazione quasi bonaria e che fa esplodere il Burattino nel liberatorio grido: “Felicità!”
Eppure non si tratta della rivalsa del servo sul padrone.
Liberato dallo stigma del Mangiafoco, il Latini attore-di-se-stesso – e non più regista, a tirare i fili delle altre marionette – ci racconta di una sorta di felicità, che è anche uno stare alla catena […] stretto, oppresso, soffocato […] punto da tutte le parti e quasi senza il diritto di lagnarsi. Se occorre, anzi, bisogna ridere. Vuoi vedere come so fare il Buffone? Rieccolo, Pirandello, e tutta la tirata contro la falsità borghese delle apparenze sociali diabolicamente “riappacificate” al di là dell’antitesi marxiana. Eppure il tocco resta onirico e leggero.
Ma c’è di più. C’è quel misto di dolore e di piacere, sorta di quasi autocompiaciuta sofferenza, di cui racconta Marco Sgrosso – il primo a planare in scena dall’enorme scivolo – nelle memorie di quella sua prima fascinazione precoce.
Già, perché Mangiafoco è e continua ad essere la personificazione del Teatro.
È lui l’involontario idolo a cui si raccontano votati – ma anche vocati e, a loro modo, consacrati – Marco Sgrosso, Marco Manchisi, Marco Vergani, Savino Paparella, Stella Piccioni, Elena Bucci e lo stesso Roberto Latini. Grazie ai loro auto biografici ricordi scelti, ci accompagnano attraverso una selezione di grandi temi e maestri dell’ultima parte ‘900 – e poi, all’indietro, a recuperare le matrici del teatro, specie moderno e contemporaneo. Sofocle, Shakespeare, Cechov, Ibsen, Büchner, Pirandello, Eduardo, Totò, Leo De Berardinis e Perla Peragallo, Antonio Neiwiller e il Pasolini di quel “Cosa sono le nuvole”, sui cui accordi della canzone di Modugno Stella Piccioni canta il leopardiano inno Alla luna. E non c’è neppure bisogno di esplicitarlo, Tutto il mio folle amore che, prepotente, affiora da quel grido: “Oh, straziante, meravigliosa bellezza (del Creato)” pronunciato da Totò/Jago/burattino a chiosa del pasoliniano film, che fu anche estrema battuta di commiato recitata dal De Curtis.
Fa venir la pelle d’oca, a pensarci. Così come mettono i brividi le chiasmiche opposizioni simboliche giocate nello spettacolo: ghiaccio e fuoco e poi carta – negli splendidi costumi di Gianluca Sbicca – ugualmente esposta ad essere divorata dalle fiamme.
Per quanto “rabbonito”, però, il Mangiafoco/Teatro è un tiranno ancora certo non deposto.
Eccola, la valenza politica – dimensione primigenia e irrinunciabile del Teatro – della tirata, in cui Latini ci racconta il senso del suo fare o non fare compagnia stabile o del suo voler concorrere oppure no ai finanziamenti statali.
Inizia come tutti gli altri, ma i suoi dati anagrafici rivelano subito che l’intento sarà differente. “Ho sette anni o forse centoventi”, dice, alludendo alla candida impertinenza del monello o, per paradosso, alla imperturbabile serenità del vecchio saggio – che molto ha visto e non ha più nulla da rischiare. Ma proprio perché la sua età anagrafica è ben lontana da questi due estremi, che questo suo spettacolo si pone come un atto generoso e coraggioso. Generosi, coraggiosi e attoralmente versatili e, al tempo stesso, dalla indiscussa solidità prossemica e performativa sono anche Le Belle Bandiere e gli altri attori in scena.
Esteticamente bello, registicamente ammaliante, semanticamente stratificato, di certo “Mangiafoco” non può non stringere allo stomaco – anche per la vertigine di senso – chi, di questo Teatro delle Meraviglie si senta parte.
Per tutti, comunque, questo spettacolo resterà in scena fino al 22 dicembre 2019 in quel gioiello architettonico che è il Piccolo Teatro Studio.