Le Belle Bandiere e la loro magnifica canzone (a) Medea
In scena per le due sole canoniche serate di martedì e mercoledì, come espressamente previsto dalla programmazione del Teatro Spazio No’hma di Milano, il 12 e 13 giugno 2024 è andata in scena “La Canzone di Giasone e Medea” della storica compagnia teatrale Le Belle Bandiere. Tratto dal mito di Euripide, arricchito dalle rivisitazioni di Seneca, Apollonio Rodio, Franz Grillparzer e Jean Anouilh, nelle mani di Elena Bucci e Marco Sgrosso diventa un lavoro dalla bellezza, necessità, profondità e sincretismo ipnotici e coinvolgenti.
«Eppure sarebbe così utile curare la sofferenza con il canto…»
Non è soltanto l’attualità del mito – inevitabile, in filigrana alla vicenda, non pensare al fenomeno dei migranti – o l’intramontabilità del dissidio uomo/donna – inaugurato dal pomo di Adamo ed Eva, o, forse, ancor prima, con la demoniaca Lilith. È la straordinaria capacità de Le Belle Bandiere di individuare un filone aurifero e impreziosirlo, se possibile, ancora di più.
E così fanno, anche in questo “La Canzone di Giasone e Medea”, il cui titolo già svela una delle cifre peculiari della compagnia: l’importanza dell’uso della voce e della musicalità della parola, amplificate, qui, da scelte sonore tanto sincretiche, quanto stupefacentemente esatte. Colpisce, la varietà delle eco – dai quasi impalpabili e rarefatti suoni new age, ai ritmi arabeggianti o agli struggenti partenopei della tradizione mediterranea, fino al graffio energizzante delle chitarre elettriche o al travolgente tamburellare della pizzica. Ancor di più colpisce, la maestria nella modulazione, tale da saperne fare costante variegato sottofondo, per poi opportunamente esploderlo a dignità di quasi coprotagonista, in grado di predisporre e accogliere – e non semplicemente commentare – gli acme drammatici.
Alla luce della loro poetica, ben altro valore acquista, il verso della Nutrice: «Non ha torto chi dice che gli uomini di un tempo furono stolti. Per le feste, i banchetti e conviti inventarono gli inni che rallegrano la vita, ma non c’è musica, né canto di molte voci per rallegrare il dolore degli uomini. Eppure sarebbe così utile curare la sofferenza con il canto…».
«non c’è canto di molte voci per rallegrare il dolore degli uomini»
Questo, ha molto a che fare anche col teatro. La sua pratica, infatti, impone all’attore un ben preciso uso di voce, pause, ritmo (in qualche modo canto) e diaframma – perché è dal profondo, che deve venire, per poter essere sentito e ascoltato da tutti. Solo così, può generare quel flusso di respiro condiviso col pubblico, che è vettore irrinunciabile del fatto teatrale. E se non sempre può rallegrare, di certo può offrire il sollievo della com-passione, precipua del fatto com-partecipato.
Tale magia si è certamente rinnovata nel palpitante parterre del No’hma, ipnotizzato anche dai movimenti scenici studiati, misurati, rallentati – tenuti, come si dice -, plastici, autorevoli, ieratici come quelli di certe danze balinesi. In effetti, l’intero spettacolo, fin dal primo e sfidante sfoderar di ventagli – alla tanghèros! -, ha il sapore di una danza rituale; eppure è incarnata da figurine esili, vestiti come le damine e cicisbei della Commedia dell’Arte – altra pietra miliare, quest’ultima, di formazione e studio della compagnia.
«Chi? Dove? Quando? In quale tempo?»
“Chi? Dove? Quando? In quale tempo?”, sono le ricorrenti domande del Coro/testimone, sorta di Fortebraccio ante litteram, che avrà pure modo di rivendicare: “Quello che dico, l’ho visto coi miei occhi e l’ho udito con i miei orecchi”.
Polifonico chiacchiericcio de le donne di Corinto – con in più il pedagogo (sorta d’ironico, istrionico corifero) -, al Coro è affidato il delicatissimo compito non solo di dar voce, ma, soprattutto, ragione a tutte quelle considerazioni di carattere etico, sociale, esistenziale (ergo, in qualche modo, filosofico), che condensano la sovrapposizione delle citate rivisitazioni. Tempi, epoche, temperie e sensibilità tanto differenti, precipitano, nella riscrittura di Elena Bucci (che autonomamente cura anche la raffinata, acutissima e visionaria regia) e Marco Sgrosso, in personaggi a tutto tondo, dalla complessità psicologica straordinariamente contemporanea e dalla fragilità umanamente disarmante. Li collocano in un algido non tempo, in una dimensione sospesa, creata dal gioco di luci, suoni, movimenti scenici, sovrapposizioni di simboli, maschere e costumi, capace di parlarci, più che della tragedia, attraverso la tragedia – mirando all’universale metatemporale, che è il senso, il bersaglio e il fine di ogni autentico discorso fra gli uomini. Fra i temi più caldi, la condizione dello straniero, spesso vittima del pregiudizio e della paura del diverso Creonte l’allontanerà, perché ne teme i sortilegi, non conoscendone la reale portata; e se sarà disposto a perdonare e accettare Giasone (“Giasone è innocente, senza di te. Giasone è dei nostri, è figlio di uno dei nostri re. […] Tu sola vieni da lontano, tu sola sei straniera”), non così lei, straniera (“Tornate al tuo Caucaso, trovati un uomo della tua razza, un barbaro come te”) e donna (“Medea, sei donna e noi donne, si dice, siamo incapaci di nobili azioni, ma di tutti i mali, si dice”).
La Canzone di Medea
“Barbara… sapiente… tradita… traditrice… assassina…” sono i primi rumors, che danno l’avvio alla pièce – i volti ancora scoperti, forse a svelare quel che da sempre si bisbiglia nella penombra, al riparo dalla maschera sociale. Ci raccontano la storia di Giasone e il vello d’oro e quanta parte ne abbia avuto quella Medea, che ora rimpiange: “Non tornerà più quel tempo felice, quando vidi per la prima volta lo straniero Giasone nel salone della reggia di mio padre”. E già, preannuncia: “e capii che era il terrore, era il destino: non potei mai più dirgli di no…”.
Già, perché se anche il titolo della pièce ci parla di un canto.. à deux – come il passo di danza – e antepone l’eroe greco alla sua sposa barbara, la vera protagonista, da sempre, è Medea. Donna e regina, discendente del dio Sole, tutto ha sfidato per seguire il suo sposo straniero e tutto ha perduto, nonostante ogni suo giuramento – e, ora, si trova tradita per la ragion di stato, apparentemente.
Eppure è un altro, il canto di Medea. È la furia cieca per d’amor perduto della donna che si sente tradita, certo, ma è anche treno funebre per quel che non vorrebbe, ma deve commettere, nonostante la straziante lotta interiore; è un grido di guerra, in fine, a rivendicare i diritti della (sua) condizione di donna e di straniera, che acuminatissime frecce offre, ancor oggi, all’arco della rivendicazione di chi si trovi in quelle condizioni.
«Sei stata tu o sono stato io? Non lo so, Medea, è successo…»
C’è un abisso, fra Giasone e Medea. Mentre lui, dal suo pragmatismo prosaico e prepotentemente moderno nell’atteggiamento anti-eroico, cerca di esporle le sue ragioni della ragione, il cuore di lei, sembra ancora pulsare al ritmo tragico del mito antico e non può che restarne sordo. Sorda, del resto, imbizzarrita e indomita si mostra, nonostante gli strategici buoni propositi, di fronte alle parole di Creonte, ma anche del Coro e della stessa nutrice. E, così, la tragedia si avvia verso l’inevitabile epilogo, con uno stravolgimento, che si annuncia essere epocale: “le acque dei fiumi risalgono alle sorgenti, stravolta è la giustizia, sconvolto ogni valore, gli uomini meditano inganni, vacilla la fede negli dèi. Ma la Fama muterà la mia vita… e tutto il sesso femminile sarà onorato, nessuna voce infamante colpirà più le donne, le muse dei poeti cesseranno di cantare la nostra fedeltà…”.
«Quello che dico, l’ho visto coi miei occhi e l’ho udito con i miei orecchi»
Questo, il canto di Medea, una Elena Bucci precisissima, generosa, ipnotica, ammaliatrice, fortissima e fragile nell’incarnare questo personaggio dall’attualità sconvolgente. In scena per quasi tutto il tempo, alterna registri, umori, maschera e volto (e non solo in senso traslato), lacrime, ira furente, fiera rivendicazione e struggente rievocazione, in una prossemica rarefatta e impeccabile.
Una combattente, questa Medea/Elena Bucci, a duellare con le donne di Corinto (spesso dalla sua parte), ma ostinatamente contro tutto ciò che proviene dal mondo maschile (dal pragmatismo quasi meschino di Giasone alla ben nota ottusità di Creonte).
Suo contraltare scenico è Marco Sgrosso, strepitoso interprete di tutti i ruoli maschili (da Giasone a Creonte fino a Egeo), ma anche della vecchia nutrice. Non solo la maschera o il costume a fargli gioco; con mimica strabiliante e, ancora una volta, una straordinaria modulazione timbrica, letteralmente si trasforma. Complice anche la maestria della riscrittura (e la sempre fondante lezione di Leo De Berardinis), riusciamo letteralmente a incontrarli, nelle loro precipuità – dalla scattante fierezza arrogante di Creonte, alla lentezza dolente e affranta della nutrice, dal parlar rigoroso del sovrano, alla parlata della vecchia, colorita di introflessioni popolane e dialettali.
E poi il Coro, Nicoletta Fabbri, Francesca Pica e Valerio Pietrovita, dalla presenza garbata, ma costante, anche nelle scene non recitate. Di non minor impatto, sono loro il terzo elemento/ago della bilancia, nel farsi, di fatto, coscienza-in-scena dell’autore, sì, ma, in qualche modo, anche occhio privilegiato e quindi filo diretto col pubblico. Se gli eroi e i loro agiti tragici ci avvincono, sono la loro leggerezza e ironia e capacità di empatizzare con ciò che si consuma in scena, a consentirci una più facile immedesimazione. Il loro scanzonato, tragico, curioso, pettegolo, ma anche affascinante cicaleccio a tre voci, infatti, finge un po’ da grimaldello e presa d’aria; una coralità – una-e-trina, nel suo pur voler mantenere e rispettarne le individualità, che rende agevole e privilegiata la nostro quasi presenza sul palco.
“Ringraziare desidero…”
È un lavoro oserei dire “perfetto”, questo “La canzone di Giasone e Medea”, che Le belle bandiere portano in scena con sublime forza (che non è violenza, ma rarefattezza e garbo), precisione (sincronica e millimetrica), competenza (nella scelta dei testi e dei segni, dei movimenti scenici, luci, musiche, costumi e maschere… e come usarle… e quando sollevarle, a disvelare i volti, e quando invece lasciarle protagoniste), ma anche sensibilità (nell’intercettare la polifonia delle riscrittura, nell’arco dei millenni, fino alla messa a fuoco del messaggio per l’oggi), coraggio (perché le tematiche sono forti e crude… fino al più odioso dei delitti: il figlicidio) e – diciamolo! – bravura. Un lavoro che oserei dire “perfetto”, se il termine non implicasse, in qualche modo, una sorta di algida distacco… Questo, spettacolo, al contrario, perfetta espressione compiuta di un percorso, che matura da svariate lune, riesce, in più a conciliare la lezione appresa e restituita nella migliore e meravigliosa delle maniere con la capacità di coinvolgere, muovere e commuovere un pubblico, al fin avvinto, stravolto-e-conciliato.
Un enorme dono fatto al teatro, al pubblico e a quanto di profondamente umano alberga ancora in tutti noi, questo spettacolo di e con Elena Bucci e Marco Sgrosso, in scena con Nicoletta Fabbri, Francesca Pica e Valerio Pietrovita.