Le poliedriche suggestioni pop di Don Chisciotte
L’idea vincente, in questo “Don Chisciotte – Opera Pop”, drammaturgia e la regia di Emilio Russo, è quella di mixare: atmosfere, piani e livelli. E’ come se, a monte, ci fosse stato un radicale brainstorming e, quello che compare in scena, non fosse altro che l’evocazione capace di dar sostanza a quelle suggestioni. Così convivono, nonostante l’evidente diacronicità, un passato cavalleresco – cortese e sognatore – ed una contemporaneità, che sa di periferia asfittica e desolante: in un non luogo dal familiare nome di ‘Toboso’, ma che altro non è che un ipotetico stargate, quale loro unico punto d’incontro possibile.
E non è un caso se, al grido di: “Saanchoooo!!” sulla scena irrompe, per primo, un Don Chisciotte bardato di tutto punto – armatura, scudo, lancia e parastinchi -, a richiamare il sempre renitente scudiero al loro dovere di ‘erranti’ – altrove, Sancho, farà della facile ironia sull’ambiguità di questo verbo “errare”… -; e non è un caso se, sorprendendogli fra le mani una mitraglietta, lo apostroferà, mettendolo in guardia contro quelle moderne e facili armi di distruzione, degne solo di uomini codardi ed incapaci di affrontare il nemico nel cavalleresco corpo a corpo. E, di lì, si snocciola il racconto per ‘topoi letterari’ – la battaglia contro i due greggi di pecore scambiati per due eserciti, la lotta contro i mulini a vento, il motivo amoroso di Dulcinea… -, ma all’interno di una ‘taverna’ – sembrerebbe, a tutta prima -, che si scopre poi essere un locale in cui, essendo appena stato festeggiato un matrimonio, i musici avrebbero poi deciso di trattenersi a suonare, aspettando l’evento epocale, che stava per compiersi in quel 20 luglio 1969: il primo sbarco di un uomo sulla luna. E, così, si aggiunge suggestione a suggestione: a quel mondo sognante e cortese d’antan, che forse solo Don Chisciotte sapeva ancora vedere – “Tu non vedi perché guardi con gli occhi!”, rimproverava allo scudiero –, quello per altro verso anch’esso carico di belle speranze – i favolosi anni “60, non a caso, che pure stavano per finire… ma non senza regalare l’estrema emozione dell’approdo in un luogo tanto remoto quanto fantastico ed insperato -, ora coronate da quel ‘piccolo passo per l’uomo, – eppure -un gigantesco balzo per l’umanità”, com’ ebbe a dire lo stesso Armstrong.
Due coloriture emotive sulla stessa lunghezza d’onda: entrambe a parlarci – con un retrogusto dolce-amaro – di una stagione che si conclude mentre già ne avanza un’altra, ma i cui prodromi in qualche modo rivelano i germi di qualcosa che non può che inverarne le premesse. E, così, quella luna sulla cui superficie per la prima volta un uomo calcò la sua impronta, è quella stessa, per sfiorarne il cui profilo Don Chisciotte era salito sul monte più alto; e come non ricordarsi che, ancora lei, era quella alla cui volta si era diretto Orlando per riappropriarsi del proprio senno? E che, sempre lei, è quella a cui chissà quanti lupi avranno ululato; e quanti amanti, poeti e sognatori indirizzato le loro invocazioni. “Dulcinea è un nome a metà fra canzone e preghiera”, sospira, ad un certo punto, il parrebbe vinto Cavalier dalla Triste Figura; ed son proprio le canzoni, in quest’opera pop, a farla da padrone: modulate dalla voce dell’ispirata Helena Hellwig, dalla timbricità potente e suadente – come il prezioso e frusciante broccatello porpora che ne valorizza la figura -, e suonate, pizzicate, tamburellate dai mastri Alessandro Nidi, al pianoforte, Francesca Li Causi, al contrabbasso ed Enrico Ballardini alla chitarra a far da contorno – in quel ‘Toboso’, appunto – al bisbetico e tenerissimo duettare di un attempato, ma indomito Don Chisciotte/Alarico Salaroli – dai vezzi, bizze e stramberie di un vecchio bambino – col suo prosaico, ma non per questo meno stralunato scudiero – Sancho Panza/Marco Balbi -: bravi, entrambi, nel modulare la loro anacronistica estraneità da quel mondo dominato dal ‘Potente Incantatore’ – la televisione: che, a tratti, riporta news dell’allunaggio e che Don Chisciotte ovviamente scambia per un nuovo bizzarro nemico da combattere -. Una realizzazione emotivamente coinvolgente e drammaturgicamente convincente, che, senza pretesa di parlar dei massimi sistemi, sa certo offrire emozione e spunti di riflessione, a chi li desidera – come non sentir l’eco del biblico: “Vanitas vanitatum”, nell’inconcludente vaneggiar del Cavaliere e nella sua lotta contro, appunto, fatui mulini a vento? – ed un benevolo ed intenerito sguardo sulla condizione umana di cui potente stigma sanno essere Salaroli e il suo generoso coprotagonista Balbi.
Ancora fino a giovedì 28 Novembre al Tieffe Menotti.