Le Visite dei Gordi ed il potere liberatorio delle maschere
Di nuovo in scena dal 6 al 27 giugno 2019, dopo aver debuttato a fine 2018 – sempre al Teatro Franco Parenti di Milano: solo sei mesi fa, ma in una stagione che tecnicamente era quella precedente -, “Visite” di Teatro dei Gordi inaugura questo moderno concept di “Stagione Teatrale”. Da qualche anno, infatti – forse sull’onda dell’esperienza dell’Estate no stop EXPO 2015 -, non usa più seguire per forza il calendario canonico (da ottobre a giugno, spannometricamente); alcuni teatri – vedi anche ZonaK – propongono una programmazione, che inizia là dove le altre terminano. L’effetto è uno spiazzante corto circuito. Il tentativo, forse, quello di sostenere il moderno continuum temporale, che, soprattutto nel settore commerciale, non contempla più “pause” o programmatiche “serrande abbassate”, quasi a scongiurare l’horror vacui di una società ignara e terrorizzata dagli antichi e rigeneranti riti di otium e vacatio.
Insieme a “Sulla morte senza esagerare”, primo spettacolo della compagnia di nuovo in scena al Parenti in autunno, nonché vincitore del Premio Scintille 2015, “Visite” torna a portare in scena un linguaggio, che non è facile definire.
Azione scenica, fondamentalmente, che, ibridando una drammaturgia narrativa con una modalità espositiva che raramente si concede il lusso della parola, si dipana in agiti dalla modalità modulare e ripetitiva. È la ripetizione, infatti, che crea familiarità e affezione; ma, pur nella ripetizione, tocca trovar agio e spazio per inserire quegli elementi capaci di creare un andamento spiroidale in grado d’inverarsi pur nel ripetersi. Questo fanno i Gordi: creano azioni sceniche – in “Visite”, la dinamica è quella di reiterati incontri fra amici -, mostrandone le varianti in differenti momenti della vita.
Fino a qui, nulla più di quello che si fa nelle fasi di “studio” delle varie accademie d’arte drammatica o dei moltissimi corsi, che sembrano assorbire il bisogno di teatro quasi di più dell’effettiva sua fruizione. Eppure i Gordi riescono a focalizzare gesti piccoli, ma ben precisi, con cui tornare a riacchiappare il senso ad ogni giro di boa. E non importa che sia il giochino con le dita della coppia di fidanzati – che torna, in fasi diverse della vita – o il loro reciproco aiutarsi a togliersi le scarpe o la goliardata del fingere un “malore” della ragazza incinta che simula il travaglio o del bontempone, anni dopo, che finge un infarto. Ci riporta immediatamente a dinamiche note – magari agli scherzi dei nostri amici – e ce li rende vicini, prossimi, simpatici, innescando quei meccanismi conditio sine qua non della catarsi, se vogliamo scomodare i meccanismi del teatro antico.
Così, tutta la prima parte racconta dello spiroidale svolgersi – ed “evolversi” – delle età della brigata: allegra, sulle prime e spensierata, come solo la gioventù sa essere, nella sua beata inconsapevolezza per cui nulla ha peso, ma tutto è possibile. In questo senso, gli scherzi, la dinamica da “comune” – ma borghese e scevra da qualsiasi ideologia -, i vestiti leggeri o le nudità esibite senza vergogna – e senza malizia – o i trenini, che non escludono il bacio omo, fra il serio e il faceto, quale possibilità. Ci restituiscono quella joie de vivre tipica di certe commedie francesi o del più nastrano Ugo Tognazzi. E poi i ritmi, che si fanno meno rarefatti, in un’adultità, che pur non rinuncia alla giocosità di sonorità caraibiche, nonostante i vesti via via più seri e i movimenti più legati, con l’avanzar del tempo.
Un lavoro preciso, accurato e diligente, ma didascalico e intuibile, fino a qui – dove quel fino a qui, appunto, è la chiave di volta.
Già perché, sfruttato l’escamotage dell’appesantire i personaggi con vestiti sempre più stratificati e conformistici… dopo essersi bruciato l’espediente del togliere, ogni volta, uno strato al letto – non a caso, le sole parole che verranno dette, in tutto lo spettacolo, riguarderanno la cipolla e la sua meravigliosa capacità di essere uguale a sé in tutti suoi strati: allo steso modo vulnerabili, senza filtri, censure o protezioni -, quello che di fatto è il secondo movimento dello spettacolo finalmente imbrocca un’intuizione a tal punto felice da farlo decollare.
È la maschera. Pensato forse come ulteriore elemento di “appesantimento” di quel sé che l’età, il tempo, le circostanze patinano fino a render quasi irriconoscibile, di fatto i Gordi ne mostrano tutto il dirompente potere liberatorio. Indossata la maschera, infatti, il corpo è costretto ad assumere su di sé quell’espressività più spesso delegata alla mimica facciale – oltre che occorre una ben precisa capacità prossemica affinché la maschera riesca a far apprezzare le proprie forme, esaltate dal sapiente uso delle luci. Così la seconda parte – intervallata da un latelliano severo momento di decostruzione degli ambienti, che per un istante incupisce lo spirito altrimenti leggero e ironico, che il mutar della situazione comunque non riesce a scalfire -, è giocata in un campo lunghissimo di gusto più cinematografico che teatrale – pur al netto della particolarissima configurazione della Sala Tre del Parenti -, che evoca suggestioni e ribadisce le affinità della regia di Riccardo Pippa con la settima arte. E’ qui che le maschere sfigurate della vecchiaia liberano i corpi degli attori straordinariamente capaci nel restituire non solo i tremori e le incertezze di membra ormai consumate dall’età, ma, non di meno, il rarefatto infantilismo di menti regressivamente intorpidite e forse già pronte ad altri voli. Così se il dettagliato valzer della seconda parte scivola via dolce, struggente, ironico, giocoso e delicato, proprio come una Rossana – oggetto di burla e di desiderio nelle dinamiche dell’ospizio -, la forse pur preparatoria parte precedente sembra quasi solo il prodromico e ridondante ricordo di qualcosa che, se anche in parte rimosso, non inficia la garbata poesia di un non di per sé facile eppure lirico, emozionante e, contro ogni intenzione, fin commovente epilogo.