L’estate, le stelle e quel teatro fatto sotto al loro sbrilluccicare
Che leggerezza ed emozione sarebbero giustamente state le parole d’ordine della ripresa “post” Covid o, meglio, del tentativo di farlo – che, ahinoi, ha invece travolto realtà dalle caratteristiche e dimensioni più disparate, dal milanesissimo BlueNote all’internazionale Cirque du Soleil –, lo si dava un po’ per scontato. Non sempre invece altrettanto scontato è cosa siano davvero questa leggerezza e questa ricerca dell’emozione. Studiate, a volte, a tavolino, in eventi progettati ad hoc, inaspettatamente, poi, le vedi pioggerellarti addosso da palchi, su cui forse non ti aspettavi di trovarle giocate in modo così autentico e ultimamente pertinente.
In fondo è un po’ questa, la sensazione che ci accompagna, assistendo, in due serate consecutive, a altrettanti eventi offerti da questa voglia, tutta meneghina, di far ripartire a pieno la macchina dello spettacolo dal vivo. Le cornici, in ambo i casi, sono prestigiose e spettacolari (i Bagni Misteriosi a bordo piscina al Teatro Franco Parenti e il Castello Sforzesco nell’omonima rassegna estiva promossa dal settore Cultura del Comune di Milano). Le proposte, al contrario, strutturalmente diverse.
Se a casa Shammah, infatti, il pubblico è stato intrattenuto con un concept ad hoc (una carrellata di personaggi intenzionalmente stralunati, a raccontare in modo nostalgico e felliniano eco provenienti dal tempo sospeso del lockdown), in Estate Sforzesca sfilano tantissimi teatri e compagnie, quest’anno: da Atir al Tertulliano, da MTM a Pacta, da La Dual Band a Farneto Teatro, fino a, Kepler 452, Laura Ponzone o Teatro del Simposio, fra gli altri; e, ancora, Linguaggicreativi, che il 30 luglio, devolverà l’intero incasso a sostegno del Teatro della Contraddizione (a rischio chiusura, per una situazione pregressa e anteriore alla pandemia). Colori, umori, intenzioni, registri e intonazioni senz’altro assai diverse; eppure medesima è la voglia di teatro dal vivo, finalmente, sotto al tiepido pigolio delle stelle.
Giocata, fin dal titolo, sul bistiche dell’ossimoro, “Stasera si può entrare, fuori, 2” nasce da una piccola follia di Andrée Ruth Shammah con la complicità di Benedetta Frigerio e Federica Di Rosa, si legge nella presentazione, in scena dal 18 giugno al 1° luglio 2020. Ci tiene molto, la direttrice artistica del Teatro Franco Parenti, a far sapere che “Non è una festa – come ha specificato nella conferenza stampa di presentazione di questa rassegna estiva -, perché la situazione ancora non lo consente. Eppure è necessario ricominciare al allenarsi: che i musicisti allenino le dita… e che anche il pubblico impari a tornare a fidarsi di nuovo, pur senza nascondere la testa sotto alla sabbia.” Non a caso il primo spettacolo in sala grande – il 29 e 30 giugno 2020 – è stato “Sulla morte senza esagerare”: “ – aveva puntualizzato la Shammah -, ma anche e con per quel che è successo”. È un messaggio forte per dignità di cronaca e per l’invito alla speranza; non di meno lo è per quel sottile inno a qualcosa di più della semplice (e ormai abusata) resilienza: una spinta sull’acceleratore del sogno, ma caparbio e fattivo, come la conduzione della Shammah, del resto, ha sempre mostrato d’essere. Lo ha fatto ancora, in piena pandemia, anche negli appuntamenti quotidiani su Facebook, in quei piccoli video, in cui dalle perle dei ricordi di una vita (spesa ne e per il teatro), traspariva già l’emozione sentita di chi, pur spaesata dall’eccezionalità degli eventi, lo dava per scontato che una ripresa ci sarebbe senz’altro stata.
Non è un caso che un paio dei volti degli attori in scena (noti e cari al pubblico non solo del Parenti) siano testimoni diretti che dal covid, evvivadio, è anche possibile guarire – e perfettamente. Queste, le motivazioni alla base di un progetto, che ha visto la ex piscina Botta animarsi di figurine evanescenti. Delicate e curatissime nei loro sognanti abiti dai tessuti spesso leggeri e giocati in tonalità lunari – da un bianco mai così immacolato, da poter risuonare quale sfarzoso proclama di un’estate ruggente, al verde salvia e, via via, in altre nuance, che virano a un pie’ sospeso dall’altrettanto sfrontato verde acceso -, si aggirano fra gli spettatori accomodati (e messi in sicurezza) in piccoli gruppi distanziati tutt’attorno allo specchio d’acqua. Sono i due eterei Innamorati (sulla scena e nella vita) Valentina Bartolo e Francesco Sferrazza Papa, a cui sembrano fra da prosaico contraltare la collaudata e ironica coppia Gianna Coletti e Marco Balbi e poi una pletora di personaggi sciolti e surreali, dalla eco felliniana interpretati da Vanessa Korn, Gabriella Franchini, Elena Gaffuri, Francesco Brandi, Salvatore Costa, Alberto Mancioppi, Luca Simonetta Sandri e Lorenzo Vitalone.
Pubblicato da Francesca Romana Lino su Lunedì 29 giugno 2020
“Questa è una prova generale – aveva anticipato la Shammah, sempre in conferenza stampa –, perché io non voglio spaventarmi. Se ci sarà una seconda ondata, conviveremo con questo Covid, fino a che non ci sarà un vaccino…” e poi l’invito a una leggerezza, che dice la voglia di non arrendersi, pur con tutte le misure di prudenza del caso. Così sono state le serate di “Stasera si può entrare, fuori, 2”, dal 18 giugno al 1° luglio 2020, trapunte di luci e accomiatate da un suggestivo e ben augurale lancio di lanterne cinesi a ricordarci, che, talvolta, occorre anche saper alzar lo sguardo e lasciarsi pervadere dalla meraviglia.
Tutt’altro mood, invece, sul palcoscenico montato, per tutt’estate, nel Cortile delle Armi al Castello Sforzesco di Milano: ogni sera una spettacolo diverso (teatrale, sì, ma anche concerti).
A chiudere i primi 10 giorni di programmazione, il 30 giugno 2020, “Io, Vincent Van Gogh”, capitolo di una serie di monografie d’autore, in cui Corrado D’Elia indaga e porta in scena, in solitaria, personaggi quali Don Chisciotte, Beethoven, Strehler, il capitano Achab o quel Danny Boodmann T.D. Lemon, che tutti conosciamo come il protagonista dell’indimenticato “Novecento” di Baricco.
Non è facile catalizzare l’attenzione del vasto pubblico di Estate Sforzesca. L’ampiezza del luogo e quel contro palco naturale, fatto dalle luci ambrate, che illuminano i torrioni e le mura e dai colori della sera, che scolorano, via via, dal fucsiarancio a un blu cobalto incastonato di stelle ce la mettono tutta a rubare la scena agli attori. E poi c’è quell’aria tiepida – già il semplice sedersi in una cornice così, dopo mesi di lockdown… sembra quasi un sogno! -, che va rinfrescandosi, mentre lo stormir delle rondini, che giocano a rincorrersi nell’aria, viene via via sopraffatto dal frinir di grilli e di cicale… salvo poi capire che erano già l’incipit dello spettacolo.
A suggerirci subito l’idea di una dismisura, stigma della sua sensazione d’inadeguatezza, sull’immenso palcoscenico troneggia la riproduzione di uno sterminato campo di grano: al centro, una sediolina impagliata. È lì ad accogliere lui, il narratore esterno, a tratti, ma più spesso lo stesso Van Gogh, che evoca ricordi. Come in un incontenibile flusso di coscienza, di quelli rubati alla vita da una mente che, della vita, non ha certo saputo acchiapparne il bandolo, Vincent racconta (a noi, pubblico fantasma, al fratello, nelle lettere che storicamente gli scrisse) i suoi sogni, desideri, incubi, traumi infantili e umanissimi aneliti di normalità, pur in condizioni che, di normale, in fondo avevano ben poco. Con quello strascicare un po’ slengato e quel vezzo – tutto D’Eliano – quasi jazzato di ripetere le parole in tonalità e intonazioni differenti fino a imbroccare quella giusta per andare avanti, “Le parole non bastano, per questo arrivano i colori…”, ammette. Inizia così il racconto del suo bisogno di dipingere e del desiderio di farlo, ritraendo il mondo contadino duro, autentico e peccaminoso, come alla ricerca di un’autenticità espressiva pur lontana – ergo incompresa – dalle mode e dal perbenismo dell’epoca.
È di una verità struggente quel che si consuma sotto ai nostri occhi. Un racconto fatto di necessità e bisogni – primari, legittimi e sacrosanti –: di quelli che più si avvertano urgenti e più ci sfuggono via con la stessa foga, che inavvertitamente porta l’assetato a schiacciar fra le mani l’acqua nella brama di possederla. E, allora, tutto si fa colore chiassoso, nei suoi pensieri e nei suoi dipinti, e volute, spirali, guizzi e tratti obliqui e imprecisi a reinventare un mondo forse troppo statico, compito e pre ordinato per poter contenere i tormenti di chi si senta già in colpa per il solo esser nato (la pièce ricorda il dettaglio anagrafico della tomba, appena fuori dalla casa della sua infanzia, dell’omonimo fratellino, nato morto il suo stesso giorno, ma dell’anno prima).
E quanto è terribilmente attuale tutto ciò! Quanto sorprendentemente ci mette a nudo, la sua fragilità, in una fase epocale come questa, in cui – inutile negarlo – ci sentiamo tutti un po’ più vulnerabili e disarmati del solito. Corrado D’Elia gioca bene le sue carte. Riesce a farci piovere addosso tutto questo attraverso il sapiente uso di una “regia” non convenzionale, che fissa, come in tutti i suoi album, l’attore a centro palco, per poi muovere tutto il resto attorno a lui come nelle spire del Cielo stellato di Van Gogh. Sono le luci, che sincopate si accendono, fra un quadro narrativo e l’altro, dei colori forti dell’artista a sostituire quel buio, che sarebbe troppo scontato usare qui. Sono i tappeti sonori: sconnessioni acustiche e rumori disturbanti, a restituirci l’insostenibile fastidio dei suoi pensieri intrusivi. Sono le raffinate colonne musicali di pregiati autori classici, che cristalline tintinnano, quando la sua coscienza si scioglie generosa a illuminare , dall’alto, come un filo di luce d’oro, a piombo, quel presepe rurale, che riesce a far di lui, il diverso, sì, ma forse anche il vero agnus Dei ergo salvator mundi. È la sapiente modulazione e misura dell’intenzione attorale, mai sbavata o gridata, ma dotata di una sua meravigliosa misura anche quando il personaggio impreca e inveisce, ma l’attore no. È la non facile scelta di farlo esprimere in rima baciata, quest’uomo che pur venne descritto come sporco, mal vestito e sgradevole, per niente cortese e malato. Eppure quanta intuizione – poetica – e quanta potenzialità – eidetica -, in quest’apparente auto sabotaggio drammaturgico, che invece libera la complessità e varietà della lingua italiana. Sono gli enjambement, che spezzano il ritmo e la riscoperta della complessa e polisemica pletora dei sinonimi della nostra lingua, in cui ciascuna parola non è esattamente sovrapponibile a nessun’altra, ma apre a un mondo di suggestioni tutto suo. È una scommessa – tecnica, registica, drammaturgica e attorale – vinta, in un meccanismo perfettamente centellinato e costruito attorno a quell’essere pulsante che è la necessità di raccontarlo.