#liberidestate.01 — La leggenda di Redenta Tiria
Ieri, 21 luglio, il Teatro Libero ha inaugurato la sua rassegna estiva “Liberi d’Estate 2014”: aperitivo e poi spettacolo – ed un prezzo accessibile a tutti -, per intrattenere quelli che, ancora a Milano, non si rassegnano a mandare in ferie la loro voglia di abitare le sale teatrali. E così, a latere delle molte iniziative di piazza – specie in Brianza… -, ecco questa: sei spettacoli, da qui al 2 di agosto, spaziando fra anticipi di stagione – “La leggenda di Redenta Tiria”, ad esempio –, grandi classici rivisitati – Shakespeare, Euripide, Tasso… – e tutto quanto ha sollecitato la creatività di T.L.L.T. – Teatri Liberi Liberi Teatri, ovvero la sinergia di residenze che anima le stagioni del Libero.
L’onore/onore di inaugurare il tutto è toccato al direttore artistico Corrado D’Elia con la ripresa di “La leggenda di Redenta Tiria”, monologo tratto dall’omonimo romanzo di Salvatore Niffoi, considerato uno dei maggiori rappresentanti della Nuova Letteratura Sarda. Una scelta di nicchia: sia per la peculiarità del testo – con la sua specificità linguistica oltre che tematica -, sia per la messa in scena: ancora una volta un album, ovvero uno di quei ‘confidential recital’ con cui l’attore ama intrattenere – con rinforzo musicale – il suo pubblico, raccontandogli delle storie: da Beethoven a Don Chisciotte, da Giorgio Strehler a Redenta Tiria, appunto.
Già la scenografia, però, ci dice che qualcosa è cambiato: oltre all’immancabile sgabello – a centro palco –, tutt’attorno una cascata di foglie sospese – quelle della sughera, tipico albero sardo, che più volte ricompare, nella narrazione, specie quando si racconta l’episodio dei fratelli Cammaleddos – e di argentee sveglie – modello retrò –, il cui ruotare appeso lancia lampi di luce, che ininterrottamente riflettono il pensiero iniziale. “Su tempu… su tempu…”, esordisce – la sala ancora al buio… -, Corrado D’Elia, con quella sua voce sapientemente roca e la predilezione per la ripetizione: un po’ scelta poetica ed un po’ lezione ben nota a chi sappia che è quello il solo modo per portare il pubblico – che non prende appunti… – fin dentro alle cose. “Il tempo, il tempo… Il tempo che s’inginocchia e che non passa mai… Il tempo che ti prende in giro”. Così, esordisce: camicia color vinaccia e pantaloni con le bretelle – a riproporre il tipo del paesano sardo -, accomodato sul proprio trespolo all’interno di un cerchio magico fatto di nuragiche pietre – “e da cui scaramanticamente non si esce se non con un salto all’indietro…”, rivelerà alla fine. In un angolo un’altalena, che non verrà mai nominata: forse lirica evocazione del tema della corda e della sospensione/caducità delle cose; ma che, per suggestiva assonanza, non può non ricordare certe ballate di De André – stesso mondo rurale sardo… stessa poetica sospesa fra concreta durezza e onirica poeticità – come “Ho visto Nina volare…”. E’ in questa atmosfera e scenografia palpitante – nulla è mai davvero fermo, in questo gioco di ‘cose appese’ mosse perfino dal mutare delle luci – che ci viene raccontata la leggenda di Redenta Tiria e di Abacrasta, paesino immaginario, i cui abitanti sono soliti morire impiccati – “gli uomini alla cinghia dei pantaloni, le donne con una corda al collo…” -, lusingati dal richiamo della voce: “Ajò, preparati, ché il tuo tempo è arrivato”. Una drammaturgia in qualche modo corale – alla “Spoon River”, volendo restare nella suggestione De André – ed una pluralità di storie, raccontate dalla voce narrante unica – quella del pubblico ufficiale del comune che firma i nulla osta per la sepoltura, apprendiamo, ma non dalla pièce -, che l’attore/regista one man show si sforza di restituire nella sua genuinità, riproponendone cadenze sincopate e gutturali e pronunciando parole in una lingua, che pur tuttavia gli resta estranea ed ostica – come del resto è, il sardo, ai più. Così ci vengono svelate perle di scrittura, quali le storie di del nonno suicida dello stesso protagonista/voce narrante, o quella di Beneita Trunzone, impiccatasi sulle note delle canzoni della radio – “Correva l’anno 1968…” -, piuttosto che assecondare il costume familiare di sacrificare una delle figlie al convento claustrale. O, ancora: Anchisu Candela, “bello come un bronzo nuragico”, che, per scommessa, sedusse l’oziosa ed annoiata Donna Amalia, maritata al possessivo Don Carmine; e ci mise la sua stessa vita, a garanzia dell’azzardo: e ci rimise – di fatto – la vita, nonostante la scommessa vinta, quando la voce li chiamò, ad cose fatte, ad impiccarsi, insieme, come panni appesi al sole. E poi tutte le altre – di una poesia delicata ed evocativa la storia dei Fratelli Cammalleddos, che non a caso D’Elia ripete, a fine spettacolo, nell’esporre la tesi che “quando sentiamo una storia per la prima volta, non ci appartiene… Quando la sentiamo per la seconda volta, l’abbiamo già sentita e ci appartiene: non siamo più soltanto pubblico, ma diventiamo comunità” – fino a che irrompe il personaggio di Redenta Tiria – «una femmina cieca, con i capelli lucidi come ali di corvo e i piedi scalzi» – e i suicidi cessano. «Sono la figlia del sole, e sono venuta per portare la luce nel paese delle ombre». Questa, la ‘morale’, che mescola insieme suggestioni pagane – le pizie: consacrate ad Apollo, il dio del sole… – e cristiane – Redenta… E, questo, il messaggio – ben augurale – che dà l’avvio alla rassegna estiva.
Così, merito a D’Elia per averci regalato l’occasione di un affaccio su quel mondo mediterraneo che, in Grecia, Sardegna – o in qualsiasi altro posto dell’Italia meridionale e dell’Asia Minore – abbacina di storie, leggende e di tutto quell’immaginario mitico – poetico ed ancestrale -, che solo la cultura successiva avrebbe incanalato in strutture di senso razionali. E merito a chi, nonostante tutto, ancora si prodiga per sfamarci di teatro: e se il ritmo o la cadenza forse non erano esattamente quelli auspicabili, certo l’occasione di accesso – meta temporale! – in questo cerchio magico – che, in fondo, è anche il teatro – è un privilegio di cui esser grati.
“La leggenda di Redenta Tiria” resta in scena al Libero fino a giovedì 24; e poi si prosegue con “Cosa vuoi che sia…”, il 25 e 26 di luglio.