#liberidestate.02 — Cosa vuoi che sia (siamo state bambine anche noi)
Continua, la rassegna estiva del Teatro Libero, con la produzione di Merenda “Cosa vuoi che sia”, di Fernando Coratelli, Giacomo Rabbi, Laura Anzan, Margherita Remotti e Lisa Vampa (quest’ultime pure in scena) è una storia dolce-amara, articolata in quadri, a gettar luce su una certa condizione femminile. Come quella delle tre prostitute, ad esempio, nel primo spaccato: dove ciascuna ci racconta di come sia arrivata a quell’approdo, partendo e passando da incroci obbligati, fragilità mal dissimulate o nevrosi lente e sottili – condite da quel senso di colpa, che è, spesso, quello delle vittime… O come le tre donne vittime, appunto, rispettivamente di un padre pedofilo/marito depravato, al cui ricordo la moglie inveisce: “Tu hai sbagliato: hai rotto qualcosa che non si può più aggiustare…”, “Le mi bambine…” e poi la – terribile! – e tremendamente umana e spiazzante verità: “Tu, depravato di merda… Tu, amore della mia vita…”. E non c’è giudizio, in tutto ciò. Il pubblico rimane equanime, di fronte a queste storie forti e che moralmente pretenderebbero una presa di posizione, nella vita di tutti i giorni. Ma qui no. Perché, qui, non siamo di fronte ad un talk show; e neppure ad uno di quegli schermi al plasma, che ci hanno abituato a rigurgitarci addosso sensazionalismi, stralci di storie più o meno imbonite ad arte e rispetto alle quali ci si vuole schierati in tifoserie: pollice verso per una condanna senza redenzione o pollice alto per un’assoluzione che non ammetta deroghe. Ma – qui… – no. Perché questo è il teatro – il luogo magico dell’empatia, della catarsi e dell’immedesimazione – e, qui, quel che ci viene offerta è l’inedita possibilità di assistere – ammantati dall’anonimato della sala buia – alle confidenze scambievoli delle tre donne – le prostitute, la madre e le figlie… -, sorprese nell’intimità dei loro luoghi abituali – le ‘tre stanzette’, nel primo caso ed il focolare domestico, nel secondo: fatto di un letto, che chissà quanta dolorosa colpa avrà visto consumare su di sé, il tavolo della cucina e poche altre cose ancora… E poi la narrazione continua con un affascinante e poetico gioco del ‘passaggio del testimone’: ancora tre donne – il palco è stato sgombrato, fra una scena e l’altra: ed ora non restano che quelle tre sedie, a cuor di pubblico, illuminate, in un gioco di rimpalli, a seconda di chi sia, quella a narrare – e le loro storie, che s’intersecano, senza nessun’altra regola se non che la chiosa del tratto di storia dell’uno diventi al contempo l’incipit di quella dell’altra: senza continuità di senso; senza soluzione di continuità, E, così, quelle ‘farfalle nello stomaco‘, che la prima narratrice evoca, quale sensazione predominante, nel ricordo dello slancio bambino, che l’aveva vista volare, in alto, sostenuta dalle braccia paterne, sono le stesse, che la seconda voce azzarda come ancora possibili – indipendentemente dall’età e “proprio quando abbiamo perso ogni fede nella relazione umana…” – in un innamoramento magari tardivo; o, ancora, quel “non ho detto speranza, ma ricerca…”, che ne chiude questo passaggio dell’intervento, scolorano ne “la ricerca della speranza”, con cui si apre il lungo ed accorato monologo della terza donna, una sorta di madre coraggio. E via così, con le tre che si rimbalzano le eco e le suggestioni dei loro ricordi di donne, fino a che la scena si fa di nuovo buia. Un altro cambio. E’ qui che si colloca la scena della violenza domestica: e quelle tre sedie che, coperte da un drappo, fungevano da sofà, nella casa di appuntamenti, ora, denudate e svelate – e ribaltate a terra! – restituiscono, già loro soltanto nella crudezza di questo dettaglio, l’irreversibilità del male consumato. E poi un altro cambio ancora ed eccoci in un raduno di amiche a distanza di dieci anni dai tempi dell’università: a ricordarne i bei tempi, le serate passate insieme, gli amori e dolori dell’epoca e la spensieratezza – “li rivoglio indietro…” dice una di loro: “Cosa non farei per avere indietro una di quelle sere! Una soltanto…”. E si capisce che la vita ha preso il suo corso. “Cosa vuoi che sia…” è la frase con cui una delle prostitute del primo quadro narrativo minimizza – o, almeno, tenta di farlo – quel carico di dolore ed insensatezza, che l’ha condotta a quella vita; e il duende, in fondo, resta sempre quello: quello di donne, che – nonostante tutto – hanno dovuto pararsi e rialzarsi, di fronte agli urti della vita. E, così, quel balletto finale, che le vede artefici di un’inarrestabile spirito di leggerezza, ma anche di non rinuncia, ha lo stesso sapore di una rinascita tanto impalpabile quanto incontrovertibile.
Quindi un lavoro ottimista e che ci parla di resilienza, in fondo; e tre attrici generose e di certo credibili, specie in alcune caratterizzazioni – non possiamo non pensare alla prostituta dei ‘vasci’ di Napoli, accattivante non solo nella parlata, ma in tutta la tipizzazione: dal modo seccato con cui faceva schioccare la lingua, nel rispondere ‘scocciata’, facendo da spalla alla ‘compagna’, a quell’atteggiarsi, precipuo di quella umanità; dall’efficace padronanza del dialetto/non dialetto partenopeo (che è dialetto, ma poi travalica in una lingua senza frontiere, che ognuno sembra capire, pur non conoscendola), fino a quel modo tutto suo di ‘sciusciarsi’ col ventaglio. Certo: a tratti il grottesco ha rischiato di scivolare in un ironico fuori contesto; ma, mediamente, le attrici sono state poi capaci nel ricondurre gli umori del pubblico alla natura originaria del testo: drammatico, benché capace di raccontare con una leggerezza ed un confidenza da amiche del cuore.