#liberidestate.03 — Shakespeare without eyes

Chissà che l’inconscia suggestione iniziale non sia stata proprio la frase shakespereana “Love looks not with eyes, but with mind” (“L’amore non guarda con gli occhi, ma con la mente”), accanto a quella di Saramago –  “Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono” -, pure citata nella presentazione del progetto. E poi non può non venire in mente la celeberrima: “È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”, che Saint-Exupery mette in bocca al Piccolo Principe.

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Ad ogni modo, quale che ne siano state le suggestioni subliminali a monte, il risultato di questo “Shakespeare without eyes”, terzo spettacolo della rassegna estiva ‘Liberi d’estate’ del Teatro Libero, è un’esperienza teatrale unica: una ‘burla’ per giocare al Teatro – quanto spirito shakespereano, in tutto ciò! -, dove ‘burla’ non significa minimamente che il lavoro sia stato affrontato in modo sbrigativo o pressapochistico. Anzi: chi conosca le dinamiche della drammaturgia ben sa quanto sia più difficile ed impegnativo far ridere il pubblico, piuttosto che muoverlo alla commozione o alla compartecipazione. Così questo divertissement shakespereano cavalca il destriero della leggerezza con tutta la spensierata coralità di una compagnia di attori giovani – quali i Chronos3 sono -, sotto la direzione registica del trentenne Manuel Renga.

L’idea di questo trittico – il Bardo ‘ad occhi chiusi’, infatti, si rinnova nelle tre serate con tre rivisatazioni di differenti classici shakespeariani: “Amleto”, “Romeo e Giulietta” e “La Tempesta” – è di offrire una fruizione teatrale decisamente anticonvenzionale. Così, forti forse dell’idea che, su questi drammi si sia già visto tutto, la sfida diventa quella di offrircene una fruizione inusitata. E, bendata la vista – proprio come quella del Cupid painted blind, con cui prosegue la citazione di cui sopra -, agli spettatori viene offerto un viaggio sensoriale – se fosse cinema, lo definiremmo in 4D…-, capace di acuire gli altri sensi, immersi nella total experience di salire sul palcoscenico ed essere loro stessi partecipi e comparse delle avventure del Principe di Danimarca, ad esempio, come durante la prima serata – accompagnati, e qui è proprio il caso di dirlo, dagli attori/guide.

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Il tutto inizia con un’accoglienza anomala: il pubblico – volutamente ridotto ad una decina: tanti quanti gli attori in scena – viene invitato a sfilarsi le scarpe ed affidarsi a questi giovani bendanti, per essere accompagnati sul palcoscenico. Prima il sipario calato e poi la benda di cuoio impediscono che gli occhi vedano: e – davvero – l’essenziale diventa visibile solo col cuore. Perché agli ‘spettatori’ la si vuol far davvero vivere, la storia di Amleto – il banchetto per le nozze del fedifrago Re Claudio e di Geltrude, madre di Amleto; la comparsa del fantasma del padre; il celeberrimo monologo dell’ “Essere o non essere”;  il dramma etico-amoroso di Amleto verso Ofelia; il naufragio della nave di Amleto; la morte di Ofelia; il duello di Amleto e Claudio…  Ed è cura degli attori di fungere anche da angeli/guida, spostandoli ed interagendo con gli spettatori, affinché la baraonda chiozzotta, che si agita attorno a loro – nel castello di Elsinor… – li sfiori, ma senza mai travolgerli. E li catturi, facendoli interagire ora come convitati al banchetto – un succo di frutta ed un dolcetto: tanto per gradire… -, ora come spettatori – nascosti… – della restituzione dei regali di fidanzamento di Ofelia ad Amleto; e ne testi la disponibilità sensoriale, sfiorandoli con la leggerissima piuma o il suono di conchiglie percosse – a suggerire l’apparizione spettrale… – o col bagnato del mare, in cui sbarca il protagonista superstite o, ancora, le gocce degli spruzzi schizzati dalla lama assassina. Nessun effetto speciale strabiliante, quindi; ma una sapiente opera di bottega, che insegna, intrattiene, diverte. Un gioco sull’abbandono e sulla fiducia – che, declinato nel contingente esercizio di affidarsi, ad occhi chiusi, all’attore/guida, va poi a toccare, forse, le radici più profonde del sapersi affidare alla relazione drammaturgica: quella attore/spettatore.

Un lavoro meritorio, quindi: leggero – nel senso virtuoso del termine – corale e ben fatto. Alcuni passaggi sono stati giustamente delegati al canto – in inglese, quasi a voler rendere un tributo all’ortodossia esegetica, che questa rappresentazione sui specis ha in qualche modo tra-d-ito -: lo stesso monologo del to bee or not to bee, come anche l’ultimo canto di Ofelia o la scena dei teatranti prezzolati da Amleto per far confessare Re Claudio.

E così a gruppi di dieci e per un tempo di una mezz’oretta, la cui durata non riusciresti a definire – perché scorre veloce, sì, ma poi son successe un sacco di cose, a ripensarci… – il tutto si ripete per sei volte a serata. E la seconda sera è stata la volta di “Romeo e Giulietta” e – dulcis in fundo – il naufragar nel mare de “La Tempesta”.

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