Lo straordinario Teatro di Cesar Brie fra dissenso, acrobazie e memoria
In scena a Campo Teatrale di Milano dal 19 al 27 ottobre 2024 (e in ripresa, a fine stagione, al Teatro Elfo Puccini), “Re Lear è morto a Mosca”, partitura di Cesar Brie e di tutto l’ensemble, riesce ad offrirci una pagina di grande teatro. Grande Teatro, infatti, è quello capace non solo di recuperare memoria trasformandola in testimonianza – e, chissà, in exemplum e fors’ anche in sprone -, ma che non inciampa nel peccato venale di sacrificare a questo la qualità di una forma, che, spesso, è essa stessa prodroma di Contenuto.
Sorprendente – e, in qualche misura, destabilizzante – è già il titolo dello spettacolo. Se da un lato, infatti, ci trascina nelle pagine dense della tragedia shakespeariana, dall’altro ci (ag)ghiaccia con quel nome di città, presago di passioni amare. Non può non risuonare il cechoviano: “A Mosca, a Mosca…”, con cui l’ormai matura Ljuba de “Il giardino dei ciliegi” si accomiatava per sempre dalla casa d’ infanzia venduta all’asta. Cionondimeno, sembra già alludere a qualcosa di ancor più sinistro – Mosca: capitale di immensi sfarzi e raffinata cultura, non meno che di assolutismi intransigenti.
Così ci accingiamo alla visione: con questo bizzarro ossimoro a ronzarci in testa, insinuandocisi sotto pelle.
Per tutta risposta, sul palco ci si para davanti la grottesca rappresentazione di un funerale dai riferimenti espliciti alla tradizione ebraica. Non facciamo in tempo a stranirci, che quel turbinio di figure, partiture, corpi, voci, canzoni, musiche indiavolate – come i vivacissimi occhi degli attori, che sembrano sovrastarci come riemersi da un incubo -, fulmineamente ci acchiappa col graffio della sua ironia coinvolgente. Ci costringe a respirare all’unisono col suo ritmo incalzante. E ha già vinto lui.
È così che assistiamo alla storia di Re Lear e del suo Matto, qui declinata in salsa yiddish.
Già, perché il grottesco funerale d’entrée – scomposto e ripartito, a restituirci il punto di vista sia dei vivi, che dei defunti, riecheggiando quella Danza della Morte, che fu una delle prime espressioni teatrali della tradizione ebraica, nella Spagna del XIV secolo -, è quello di Solomon Michoels. Personaggio storicamente esistito, dal 1928 fu primo attore e poi regista/organizzatore di compagnia del teatro Goset – acronimo di Teatro Ebraico (Yiddish) Statale di Mosca. Ne tenne le redini, destreggiandosi fra apparente connivenza con lo stalinismo e dissimulata satira attraverso le allegorie, i simboli e gli archetipi culturali ebraici (e, per ciò stesso, in qualche modo “cifrati”) … fino alla messa in scena di quel Re Lear, che ne decretò la purga. Accanto alla sua, la storia non meno infausta del Matto Venjamin Zuskin, – ovvero il Fool Shakespeariano. Due testimonianze di profondo amore per un teatro del dissenso e inteso come strumento d’identità culturale e di resistenza. Eccolo, il Contenuto di questa pièce, che veleggia fra piccola e grande storia, facendosi beffa della Propaganda e propagandando invece storie di uomini e donne eroici per indole e fermezza morale, più che per slogan. Una storia, in cui i nomi della Grande Storia – da Einstein a Stalin, da Chagall a Craig – s’intrecciano con l’ordinarietà della quotidianità di uomini e donne appassionati, polemici, spaventati, risibili e piccoli – impagabile, la gag del micro Stalin/puppet vivente a consulta coi suoi fidatissimi! – non meno che ciascuno di noi.
E se questo è, in sintesi, il Contenuto – che si fregia, fra l’altro, della consulenza storica del Professor Antonio Attisani -, di non minor dirompenza è quella Forma, che – ça va sans dire -, nelle regie di Cesar Brie, raramente manca di profumare di sudore e assi – passione e invenzione, sì, ma non per ciò minor metodo, attenzione, cura, precisione e incanto, in un ensemble spesso fra faceto e grottesco, serio, semi serio e visionario, fino all’affondo di senso.
Tutto questo si realizza sul palco in una compagnia di otto Attori giovani, ma straordinariamente preparati, generosi, versatili e affiatatissimi. Alessandro Treccani e Davide De Togni, anzitutto: ovvero un Solomon Michoels/Re Lear e Venjamin Zuskin/Il Matto dalla credibilità e presenza scenica impeccabile – De Togni, poi, non smette un attimo di performare a mille, con incredibili energia, leggerezza e controllo, messo in luce anche dalla peculiarità della balbuzie del suo personaggio. Ma non meno dicasi anche di Michelangelo Nervosi (Chagall) o di Leonardo Ceccanti, Anna Vittoria Ferri, Tommaso Pioli, Annalesi Secco, Laura Taddeo, Altea Bonatesta e Eugeniu Cornitel, che si prestano in modo puntualissimo e sempre versatile alla pletora degli altri ruoli di questo compositissimo intreccio.
Alla guida, un Cesar Brie Gran Burattinaio, presente in scena nel personaggio dell’amico/nemico critico teatrale, anch’egli ucciso nel falso incidente automobilistico insieme al protagonista. Ma poi quanta struggente attenzione, in quel quasi passaggio di testimonio, che lo porta ad un costante e silenzioso passo in dietro, per far emergere i suoi attori, di cui non disdegna di fare fin il servo di scena. Eppure nulla toglie alla lucidità visionaria e fattiva del maestro, che non ha ancora smesso di sognare e imbastire drammaturgie e di confezionarne le trappole efficacissime, nello scatto, eppure ordite in modo tale da lenirne la ferocia attraverso la carezza dei segni – come nelle scene del pestaggio o in quegli strampalati paltò, zebrati dal sadico passaggio degli pneumatici sicari. Esplicita così, il senso di un lavoro tanto evanescente, millimetrico e necessario, quanto il (suo) Teatro di denuncia – che pur non si sottrae alla fatica della ricerca e del senso, della coerenza e del dettaglio. Così, ad esempio, se tanto spazio dà al canto e al ballo o se sceglie un trucco sfacciatamente grottesco, si affretta a dircelo che non è Brecht. Non è lo straniamento – forse, ma solo in parte –; quel che primariamente persegue è quel modo di fare teatro yiddish, in cui il canto è solo un altro modo per pregare e il lazzo sarcastico della satira o il guizzo frenetico della danza, forse solo un altro modo per servire Dio – un Dio duro, spiegava Padre Ravasi, che è quello di Isaia, capace di schiacciare il Suo popolo come nella tinozza l’uva, pur di estrarne la parte migliore.
E, allora, è impossibile, non sentir l’urgenza di un Teatro del genere – per le tematiche, per la bellezza e il suo profumo di elevatissima artigianalità e profondissima domanda, che punta al cuore.
Un fiume di parole, forse, le mie; un fiume in piena, questo spettacolo, fatto di emozioni, corpi, voci, fisicità, canto, guizzi, declamazioni, tradizione, sincretismi, suggestioni ora taglienti, ora grottesche e provocazioni e domande implicite dalla leggerezza quasi folgorante.
In fondo, sembra tutto già splendidamente prefigurato in quel: “Sono incontenibile, quando risuona in me il vero Teatro”, battuta del pur inizialmente scettico Sir Edward Gordon Craig dopo aver visto quel Lear yiddish.
Se lo avete perso, di nuovo in scena al Teatro Elfo Puccini, dal 3 al 15 giugno 2025.