“M.me Cyclette” in divertita volata sullo spauracchio del tempo che passa
“Madame Cyclette”, drammaturgia e regia di Patrizio Luigi Belloli, ha occupato ben due week end lunghi ai Linguaggi Creativi – da giovedì a domenica: come da loro programmazione – ottenendo quasi sempre il tutto esaurito.
Perché? Intanto perché è un testo ben scritto, che, senza mai sconfinare nel livore del sarcasmo o nella causticità della satira, riesce ad offrirci uno spaccato ironico e godibile di una delle più diffuse paure della nostra società: invecchiare. Se nell’antichità, infatti, la vecchiaia era considerata un fatto eccezionale – e sinonimo di saggezza, per lo più -, via via poi progresso e sviluppo hanno migliorato le condizioni di esistenza, consentendo un generale innalzamento dell’aspettativa di vita, a cui non sempre però corrisponde un’ altrettanto auspicabile qualità. “Muore giovane chi è caro agli dei…”, diceva già Menandro: e tanto più sembra vero oggi, quando il tasso di natalità non pareggia quello della mortalità e l’età media in una nazione come la nostra si aggira attorno ai 44 anni – con un indice di vecchiaia di 154,1 anziani ogni 100 giovani.
Ed è proprio questo spauracchio sociale, quel che va ad acchiappare, qui, Patrizio Belloli.
Ma non ne fa una noiosa riflessione socio filosofica sulle inevitabili disfunzionalità, che il passar del tempo impongono alla macchina-corpo. Quel che gli interessa è esorcizzare, ridendo, il correlato peccato capitale della nostra società dell’immagine: lo sfiorire della bellezza.
Non potendo fermare il tempo, lo sforzo negazionista sembra essere quello di procrastinare l’avvenenza fisica, sconfinando in quei paradossi grotteschi, che popolano gli schermi delle tv , novelli specchi delle brame del desiderio collettivo. Anche questo, imbrocca, Belloli: quale strumento migliore per demonizzare un fenomeno che quello stesso attraverso cui prolifera? Ed ecco che immagina un gioco – un po’ reality, un po’ competizione ad eliminazione –, in cui le tre protagoniste si contendono un già di per sé risibile ‘premio’: una carta d’identità, che certificherà il loro essere diciottenni con tutte le belle speranze, che questa prima età dischiude; un conduttore/imbonitore dai toni entusiastici e gioviali e un pubblico – quello in sala: guest star di se stesso -, sono gli altri ingredienti indispensabili.
Un testo ben scritto, si diceva, che riesce a restituirci l’autenticità delle situazioni. Bravissima, Paui Galli/Madame Cyclette alias Letizia – chissà se che già il nome non ne rifletta il desiderio di felicità – nell’accattivarsi il pubblico con un’ironia sottile e strappata al parlar quotidiano. Particolarmente efficace, in tal senso, ed esilarante, risulta tutta la scena au rebours, in cui rivive la vicenda della crociera col marito futuro e già fedifrago: e quando è chiamata a commentarla – in divertenti fermi immagini, magistralmente resi e tenuti dai compagni in scena -, non si può non ridere di fronte alle freddure, che ciascuno di noi vorrebbe riuscire ad indovinare in un scambio di battute veloci e taglienti quanto basta. Ma non da meno gli altri attori: Matteo Barbé, ovvero il conduttore, che non deflette per un istante da quel sottile equilibrio sul filo del “wellcomm” motivazionale e garbato e poi però anche un gioco un po’ più ‘sporco’ con un occhio all’ odience. “Talvolta bisogna saper tornare indietro, per andare avanti”: è una delle tipiche frasi ad effetto con cui si gongola nell’introdurre l’ennesima diavoleria performativa. Le altre due concorrenti sono mirabilmente interpretate da Elena Cleonice Fecit/Patrizia e Andrea Tibaldi/Lucrezia, impegnati anche in una pletora di ruoli secondari, che ne evidenziano tutta l’abilità attorale.
E se la Fecit dà il meglio di sé nell’interpretazione della vecchia nonna – con una fisicità, vocalità e mimica assolutamente credibili, declinate in una parlata milanese tanto realistica quanto esilarante -, Tibaldi sembra plastilina allo stato puro, entrando ed uscendo in ruoli maschili e femminili, con una disinvoltura da fare invidia: una statua di sale – nell’arguto éscamotage registico dei fermo immagine -, ma poi anche un fiume in piena, nell’impersonar le nevrosi ed il trasformismo di Lucrezia, disposta a tutto pur di non restar fuori dal gioco – della vita, prima di tutto. Ben scritta anche la regia – che gioca con la riproposizione teatrale del linguaggio anche scenico della televisione -, in un’incessante invenzione di effetti, diversivi e lazzi, in cui regista e drammaturgo rivelano la loro identità.
Talvolta, però, il testo poi indugia in passaggi forse non sempre così immediatamente leggibili. Quando le vicende delle tre s’intrecciano in flash back, se risultano narrativamente efficaci nello svelare l’ipocrisia ed il delirio di narcisistica auto affermazione delle tre, talvolta si perde un po’ il filo degli eventi e – soprattutto – si fa fatica a collocare un finale che trascende ogni qualsiasi logica di senso. Se ‘crediamo’ ancora alla bambina di otto anni, per il proseguo forse occorrerebbe una differente contestualizzazione registico/scenografica – o, in parte, una scrittura un po’ più cristallina. A parte, dunque, qualche prolissità e sbavatura, lo spettacolo resta sicuramente un raro caso di quel teatro che, pur ponendosi come ‘leggero’, riesce a portare alla riflessione del pubblico temi tanto attuali, quanto forse evitati – specie dai giovani -, se offerti come oggetto dichiarato di una dissertazione ad hoc. “Perché ridere soprattutto è cosa umana”, scriveva Rabelais; e saper far ridere in modo sottile ed intelligente, chiamando in causa anche il meccanismo dell’auto ironia – di chi, pur ancora giovane, non può non indovinarsi in quelle amplificazioni così ben sostenute anche attoralmente – è, qui, un merito che va ascritto all’intero gruppo.