Macchine… vive!
Mejerchol’d – e la sua biomeccanica -, il teatro fisico di Grotowski, la pratica d’uso dei centri – la cosiddetta ‘quarta via’… – di Gurdjieff: questi gli autorevoli antesignani de “Le scimmie nude”; e poi ancora le teorie del filosofo William James e – forse ancor di più – la poetica di Antonin Artaud: e la sua “Crudeltà”, intesa come ‘rigore’ e ‘sacrificio’ all’espressione teatrale a tutto tondo – non importa quale che ne sia la modalità espressiva, come il Living Theatre avrebbe poi continuato a sostenere… -; e pure Pina Baush – è stato detto – e il Physical Theatre. Tutto questo – come si accennava – coagula e si sustanzia nella fisicità di queste “Macchine”, portate in scena all’ Out Off dal collaudato trio Claudia Franceschetti, Andrea Magnelli e Marco Olivieri.
Né bisogna lasciarsi intimorire dalla sfilata di questi mostri sacri, perché quel che ci accoglie, in scena – e ci accompagna per oltre un’ora -, è la rarefatta presenza di tre figure dall’apparenza evanescente: con in dosso vesti candide e svolazzanti – sembrerebbero pronte a spiccare leggiadri balzi edenici -, sospese fra un prato verdeggiante – che s’innalza appena in una morbida collina… – ed un tenda indaco, a completar lo sfondo a mo’ di cielo/orizzonte, e dove il solo arredo scenico presente, una sorta di cassa/panca, è in plexiglass trasparente: quasi a non voler disturbare l’idilliaca ambientazione con la consistenza della sua presenza…
Già, ma in questo giardino fuori dal tempo – sembra quasi di sentir un gioioso cinguettio di uccelli ed il viso accarezzato da una dolce tiepida brezza; ed il naso solleticato dall’olezzo di fiori paradisiaci… -, le tre candide figure si muovo con gesti marcati e, a tutta prima, difficilmente decifrabili: con una ripetitività -dinamica e compulsiva, quasi… -, che immediatamente basiscono; poi – a poco a poco – tutto acquista forma: e senso… E così si comprende: che se vero è che l’uomo è la sommatoria dei suoi gesti che si ripetono -ciascuno, infatti, ha i propri automatismi: fobici, narcisistici o quali che siano, che lo rendono, per questo verso, ‘macchina’ -, per altro verso è anche un ‘animale’ – non a caso le prime parole pronunciate sono, in evidente contrasto col candore celestiale dell’elemento visivo, di allusione all’odore, che il corpo umano emana e a tutte quelle ‘poco nobili’ dimensioni biologiche e poi di vulnerabilità psicologico esistenziale, che ci differenziano dagli angeli per assimilarci, invece, alla prosaicità degli esseri terreni -: e la combinazione di questi due elementi conduce dritto dritto al rispolvero del nostro essere ‘zòon – ‘animale’, appunto – politicòn’: ché risulta subito evidente che il nostro ‘essere IL nostro corpo’ nel senso di ‘essere NEL nostro corpo’ – pleonastico scomodare le reminiscenze platoniche del ‘corpo tomba dell’anima’ o della ‘biga alata’ e della ‘metempsicosi’, che porterebbe l’anima a precipitare in un corpo-carcere – ha, come ulteriore conseguenza, la ricerca obbligata di un rapporto di relazionalità – sessuale, principalmente: che, a sua volta, costituisce un ulteriore elemento di ‘schiavitù’: ‘pauraedesiderio’, per citare un altro lavoro di questa stessa compagnia, vincitore del Premio del Pubblico al Fit Festival del Canada di quest’anno… -: e tutto questo ci parla del ‘pricipio individuationis’, per dirla filosoficamente – o, come vociano, i tre personaggi, scoppiando nei loro scomposti: “Qui… Ora… Perché”.
Questo, in fondo, il corposo nucleo concettuale, ma che ci vien, poi, felicemente declinato in una serie di quadri narrativi, capaci non solo di stupire per l’impeccabile capacità di controllo e modulazione fisica degli attori/performer – eccellente Andrea Magnelli, le cui plasticità mimica ed intensità espressive sono quelle di chi davvero abbia il cosiddetto ‘physique du role’; ma non di meno i suoi compagni: di Claudia Franceschetti, ad esempio, come non citare la scena in cui, diventata ‘fantoccio’ dei due contendenti, si lascia posizionare e modulare fin la mimica facciale con una malleabilità davvero da bambola di gomma? -, ma anche per la godibilità di sequenze capaci di far sorridere e ridere mescolando elementi di realtà – la scena dei due vecchietti, una per tutte o quella dell’esilarante preghiera: “Ave Maria, tu ch’ si’ santa, tu ch’ si fìmmina, dammi ‘na fìmmina pe’ cumpagnìa” – all’altrimenti astrusa materia di questa ‘non pièce/studio teatrale’: ed il pericolo è brillantemente scongiurato da Gaddo Bagnoli, qui anche regista.
Per gli amanti di un teatro fisico, performativo, ma anche teor(et)icamente strutturato e di certo impegnato a livello sperimentale, Le Scimmie Nude sono una compagnia – ormai decennale – da tener d’occhio.