Malosti, Pirandello e la “corda” a… sonagli
A volte capita che un autore, apprezzato, applaudito, studiato e rappresentato in una certa stagione, venga poi lasciato un po’ in disparte per essere riscoperto successivamente. E, così, in concomitanza col centocinquantesimo dalla nascita di Luigi Pirandello, ecco che Valter Malosti si appassiona a uno dei testi più popolari del drammaturgo siciliano. E decide di dargli nuova vita.
È il caso de “Il berretto a sonagli”, produzione TPE (Teatro Piemonte Europa), al Teatro Carcano di Milano dal 28 novembre all’8 dicembre 2019.
Non solo un nuovo allestimento, ma un riadattamento vero e proprio.
“A birritta ccu ‘i ciancianeddi”, questo era il titolo dell’originario, scritto per l’attore Angelo Musco, ridotto e messo in scena dalla sua compagnia nel 1917. Perduto prematuramente l’originario, è da questa riduzione che lo stesso Pirandello fu costretto a mutuare la sua drammaturgia in italiano per la rappresentazione del 1923: tagli e colori annessi. Ritrovata, solo nel 1965, quella primissima stesura e pubblicata nel 1988, è proprio da qui che Malosti decide di ripartire nel suo intento filologico di recupero di lingua, tinte e caratteri originari.
Ed ecco che i suoi personaggi tornano a parlare in siciliano – un po’ bonificato ad usum di un più vasto pubblico – e che il protagonista torna ad essere Ciampa anziché la signora di casa.
Sul palco, una messa in scena solo apparentemente tradizionale.
Se, all’aprirsi del sipario, quel che appare è il classico salotto buono di una famiglia benestante dei Primi del Novecento, colpisce subito il piano inclinato che troneggia al centro.
Pur rifinito con piastrelle dalla citazione realistica, s’impone per il suo intento metaforico: è in questa gabbia – dorata, ma sdrucciolevole – che si muove la protagonista Beatrice Fiorica interpretata dalla prima attrice Roberta Caronia
Tormentata dal pensiero del tradimento consumato dal marito, è consigliata a vendicarsi dalla Saracena, donna di malaffare, la cui nomea in paese recita: «donna insieme alla quale in questa città è meglio non farsi vedere». Il piano ordito è quello di cogliere l’uomo in flagranza di reato con l’amante, da cui certo si precipiterà al rientro dall’ennesimo viaggio d’affari.
Invano tentano di farla ragionare.
A cercare di farla ragionare è Fana/Maria Lombardo, la domestica che nella scrittura originale era persona da così tanto tempo a servizio, da averla vista crescere e che qui, invece, viene ridisegnata come una donna giovane, ma devota, solerte, sottomessa e assennata. A sconsigliarla anche Fifì/Vito Di Bella, il fratello di Beatrice, che lei convoca in fretta e furia per farsi restituire la somma prestatagli per saldare un debito di gioco. Ora la reclama: è, questo, infatti, l’espediente con cui intende allontanare Ciampa/Valter Malosti, sottoposto del marito e marito dell’amante Sarina/Roberta Crivelli. A sconsigliarla, infine, ma evidentemente sensibile al suo fascino di donna, è anche il Delegato Spanò/Paolo Giangrasso, chiamato a concertare l’appostamento che renderà ufficiale, e dunque perseguibile, il reato.
E poi c’è lui, Ciampa/Valter Malosti, il vero protagonista. È lui che, intuito un secondo fine nell’imbasciata comandatagli dalla signora, fa il celeberrimo discorso sulle tre corde. Sua, la voce che non teme di esplicitare quell’indicibile, che le convenzioni non consentono di pronunciare, paragonando i membri della società a pupi fino ad ordire l’éscamotage della follia quale unica via socialmente accettabile a seguito dello scandalo.
Quanta fedeltà c’è, al pensiero di Pirandello, nelle mille voci e, dunque, angolature e punti vista.
La scenografia ce li racconta anzitutto attraverso le quinte a vista semi riflettenti. L’effetto è una scomposizione caleidoscopica, che, frantumando la realtà, ci consente di coglierne i diversi scorci.
Altro arredo drammaturgico è l’enorme specchio – dall’ancora una volta storicamente realistica cornice dorata –, posto alle spalle del divano e quindi a favore di pubblico. Ciascuno di noi può idealmente riflettervisi: come a dire che, ciascuno, è richiamato alla responsabilità del proprio ruolo di coprotagonista e, in qualche modo, correo. Già perché, al di là del piacere di una scrittura schietta, vivida e vivace come quella di Pirandello, quel che poi fa sempre la differenza è la ricerca di senso.
Ed è qui che si colloca l’intento di Malosti: in quella rivisitazione “d’autore”, che, inaugurata con “La scuole delle mogli” di Molière e “Molière/Misantropo”, prosegue con questo “Il berretto a sonagli”.
L’emozione folgorante di riscoprire l’attualità di Pirandello.
Potrebbe sembrare lontanissimo da noi quel che capitava, ormai cento anni fa, in un paesino sperduto dell’entroterra siciliano. Vengono in mente atmosfere gattopardiane, abiti sontuosi – qui ottimamente restituiti da Alessio Rosati – e non sempre facili da indossare e costumi sociali di ancor più difficile sfoggio. Forse sorridiamo perfino – di sgomento – di fronte a una società capace di ammettere il delitto d’onore o pagliacciate simili a quelle farneticate in scena. Fatichiamo a immaginare un mondo, che forse pensiamo avulso da quella ininterrotta connessione, che invece oggi consente a noi una dimensione di libertà e, quasi, di ubiquità. Ma quanto differenti erano, il vocio del paese o il subdolo pettegolezzo, da certe sottili diffamazioni senza volto, che anonime dilagano, oggi, nel web?
E poi ci capita di riscoprire un testo così. E immediatamente riviviamo, sulla nostra pelle, tutte le volte in cui, anche al giorno d’oggi, pur così apparentemente tollerante, possibilista e politically correct, siamo stati costretti a tirar ben bene la corda civile. Pena sarebbe il lasciar trasparire quella stonatura, nella voce, che rivelerebbe il disappunto della nostra corda seria. E, allora, o imbarcarsi in un impopolare discussione oppure uscirsene tirando la corda pazza.
Indossare un provvidenziale berretto a sonagli, quanto spesso questo, ancor’oggi, occorre fare! È come insegna Ciampa: ché, questo solo può scusare l’impopolare verità del nostro dire – quella che, al pupo di buon senso, allineato col suo ruolo sociale, orgogliosamente geloso del suo buon nome e del rispetto degli altri pupi, mai salterebbe in mente di pronunciare.
Un lavoro di squadra efficace e godibile.
In scena tutto questo è reso grazie ad un’impeccabile recitazione degli attori, che sciorinano, in un dialetto verace e frizzantino, una trama, che acquisisce ritmo col procedere dell’intreccio. Alcuni dalla connotazione volutamente più caricaturale, tutti comunque dalla sicula nota sanguigna, concertano un lavoro scevro da protagonismi.
Così né Roberta Caronia, la moglie protagonista della primissima stesura, né Valter Malosti, quel Ciampa divenuto poi perno della riscrittura pirandelliana, pur eccellenti nella loro interpretazione, riescono però a catalizzare del tutto l’attenzione sul proprio personaggio. Quel che manca, forse, è la capacità di osare un po’ di più sul versante recitativo. “Il carattere di Ciampa è pazzesco, questa è la sua nota fondamentale. Gesti, andatura, modi di parlare pazzeschi. Cosicché dovrà nascere il sospetto e la paura che a un dato momento egli possa uccidere”, scriveva Pirandello, in una lettera nel 1917. Ecco, a questo Ciampa forse manca un poco del guizzo del matto – e, se ci fa paura, è più per le reazioni attonite dei pupi astanti, che per il suo invece blandito piglio.