Mariangela Gualtieri e la tonalità Porpora del suo Rito Sonoro
L’occasione era ghiotta, in questa ventunesima edizione di Danae Festival – e, l’occasione, è stata quella di poter assistere a una performance dell’attrice e poetessa Mariangela Gualtieri.
Non così spesso frequentatrice degli ambienti meneghini, è stato grazie a Teatro delle Moire – dal 1999 anima, mente e cuore dell’autunnale festival, che gioca a mixare i linguaggi in una proposta senza etichette predefinite, ma con l’occhio teso a ciò che di nuovo si muove anche sulla scena internazionale -, che il 9 e 10 novembre 2019, in un Teatro Out Off gremito fino al parossismo, si è potuto assistere a “Porpora. Rito sonoro per cielo e terra”.
E di questo in effetti si è trattato: di un rito, laico, ma con tutta la ieraticità e solennità del caso.
Al pianoforte, il compositore Stefano Battaglia. Giocando a creare atmosfere sonore quanto mai variegate, ha alternato un modo di suonare più convenzionale ad uno meno. Così lo abbiamo visto immergersi nella cassa armonica dell’imponente strumento a coda e tirar fuori, come dalla pancia di un’immensa balena buona, sonorità quanto mai suggestive, agendo direttamente sulle corde – ora pizzicandole, ore percuotendole con mazze felpate.
In duetto con lui, lei: Mariangela. Anzi, la sua voce: profonda eppure sottile, come quella di bimba dallo sguardo rimasto incontaminato, nonostante abbia molto visto e lungamente vissuto; una voce decisa ma garbata come quella della serva di un Signore troppo più soverchiante per potergli rivolgere parole men che accorte.
E tutto ciò per accompagnarci in una immersione cromatica giustamente evocata solo dai versi poetici e non da luci o regia. Cesare Ronconi, infatti, che con la Gualtieri ha fondato il Teatro Valdoca nel lontano 1983, non ha cavalcato la scelta facile di accendere le scene di bianco, rosso, viola o blu, asseconda del caso. Rimettendo l’onere a quel coprotagonista irrinunciabile che è il pubblico – meglio: alla sua forza immaginifica, sì, ma anche alla sua capacità e libertà di lasciarsi andare alle sollecitazioni liriche -, ha creato un’atmosfera cromatica blu cobalto, rischiarata da un enorme sole metallico, a tratti disturbante, nel suo sfolgorio arancio, e acceso al punto da scaldare.
E tutto quest’impianto solo per supportare lei – la sua voce.
In piedi su una struttura lignea, a centro palco, porge le sue poesie come dal pulpito di un altare – o, chissà, dal patibolo su cui sta per essere giustiziata una novella strega. Già, perché tale è la sensazione quasi tangibile di ritualità, da far pensare a qualcosa che per forza abbia a che col sovrannaturale. Divina, umana, laica, profana o profanatrice – per paradosso -, poco conta: acutissima, è la percezione della sacralità.
E mentre duetta con quella musica così accorta nel cambiare e nel cambiarsi in sonorità capaci ora, di colmare i di lei silenzi, ora, d’insinuarsi fra le sue parole leggere, ci dice di colori – quelli attraverso cui la terra parla e Mai tace. Mai piange. Bisogna ascoltarla -, a cui associa immagini quanto mai sorprendenti. Così il bianco è pieno di grida: irrimediabilmente. Il verde ha una cantilena che tiene legato il seme: ed è consolante, pacificante e pacificatore, il verde, così come lo è quel seme, che pare niente e invece sogna. E via così. L’intonazione sempre uguale a se stessa – quasi a suggerirci che il senso non è da ricercarsi nell’enfasi del dire, ma nel significare del detto -, alternando colori dall’evocazione sinistra a tinte concilianti. Ai grandi spaventosi pezzi di blu succede il celeste (che) agita quel seme che ha in noi memoria del volo. E tutto si rasserena, come nella pace grandiosa al centro del campo dalla suggestione quasi vangoghiana, evocata dal verde, che qui svapora nella nuvola d’aprile (che) passa nel cielo lenta e un po’ sfilacciata. E se la musica torna pacata, cadenzata e quasi pastorale, lo è per poco soltanto.
Già, perché le lacrime tutte sono nel viola. Lì è raccolta la voce di tutto il dolore.
Tornano in mente i paramenti lividi della Quaresima o quelli che accompagnano il tempo del lutto. La Gualtieri, qui, scrive una delle pagine più strazianti: la storia atroce e dolcissima, della vecchiaia, in cui i ruoli s’invertono. Di sé dice: Ogni giorno partorivo la mamma […] la tenevo di qua. Quei versi dicono tutta la disperante fatica e il lungo sgravare, dicono lo struggimento – lei che piano piano scivolava sul fondo fangoso – di un Orfeo, che non vuol lasciare andare la sua Euridice.
Ma raccontano anche di quella dolcezza quasi infantile di una senilità forse non più consapevole – chiama aiuto e scambia i vivi e i morti – eppure ancora così cara da farle recitare: Se il suo occhio è lontano, la sua mano uno sterpo, quando sorride, questa mia figlia vecchia è un tale strepito assolato… Parole così non possono che arrivare dritte al cuore; e, in sala, scende qualche lacrima.
A blandirla, la carezza di porpora, che come insegnano gli Antichi, è il punto in cui il colore si fa più acceso. È la tonalità emotiva, che tutto accoglie, consola, perdona.
La seconda parte di questo rito sonoro si svolge in un palchetto più piccolo e defilato.
Stesse modalità, ma, qui, i colori non sono più quelli della natura, del dolore – in fondo: cosa c’è di più naturale di questo, che, ahinoi, scandisce le stagioni della vita? – e della nostra pochezza conciliata nella passione di viaggio, nella concordanza di esserci con tutto il resto. Qui il rosso si accende di potere e il nero di bui, spari, notte e morte. E il controcanto si fa forte nel rivolgersi al fiero e austero amato, fino a sciogliersi in quel Sii dolce con me, sii gentile.
Se questa seconda parte chiude con l’auspicato avvento di chi non chiede come noi di essere amato, ma ama e, amando, rifeconda la specie, l’ultima parte è uno stigma: nell’elegante grigio si rapprende il dolore della specie.
E, non a caso, quest’ultimo brandello di performance, lo recita su un’incudine. Vi sale, raccontandoci che ci sono corde, catene, serrature, nel grigio, ma è proprio reggendosi a queste – chissà, i legami di sangue o gli indicibili segreti del cuore –, che prova a forgiare, con le parole, almeno, una nuova umanità.
E noi? Noi che ancora siamo qui, sgambettiamo, pure siamo costretti ad ammettere che ci feriscono ancora vecchissimi nemici con le stesse parole. E allora? Non siamo migliori di allora. Non siamo più saggi. E se anche, sì, siamo uno sputo impastato di fango, forse il messaggio resta sempre quello del Ringraziare desidero. E il non essere mai stati delusi resta forse il solo messaggio salvifico.