Marta Cuscunà e la leggera perfezione delle cose
Ospite al Piccolo Teatro di Milano con una personale a lei dedicata, dal 15 al 20 febbraio Marta Cuscunà ha portato in scena tre dei suoi spettacoli più rappresentativi. Sono “È bello vivere liberi!”, già vincitore del Premio Ustica 2009, che ripercorre la storia della partigiana Ondina Peteani, “La semplicità ingannata”, sulla personalissima resistenza cultural intellettuale delle monache del Convento di Santa Chiara di Udine nel 1500 e “Il canto della caduta”, che recupera un antico racconto epico popolare della tradizione dei Ladini. Evidente, in tutto ciò, l’attaccamento ad un territorio; lungi dal creare particolarismi, i suoi racconti riescono invece ad agganciare il pubblico, accompagnandolo dalla specificità di quella storia a suggestioni e riflessioni dal respiro universalistico.
Marta Cuscunà, la gran burattinaia
A vederla, la Cuscunà appare come una ragazzina sognante dal cinguettio sottile e grandi occhi spalancati sul mondo; eppure, le sue, assomigliano a Storie, non certo della buonanotte, ma, sì, per bambine ribelli. Protagoniste dei suoi spettacoli, infatti, spesso sono figure femminili, capaci di mostrare tutta la grinta, la tenacia e quella personalissima resilienza, di cui tante donne hanno dovuto dar prova, a testa bassa, per raggiungere risultati, che, il più delle volte, lo storico pregiudizio sessista ha fatto costar meno ai colleghi uomini.
Ed ecco che lei, figurina minuta e agile, sceglie non solo di portare in scena un teatro di figura, che immediatamente spazza via l’equivoco secondo cui questo medium sarebbe ad uso esclusivo dei bambini; in più, lo carica di una valenza garbata, ma fermamente engagée, davvero spiazzante. Lei stessa sceglie di non uniformarsi al diktat del teatro su nero, che vuole veder sparire il marionettista a tutta gloria della marionetta. Al contrario, la Cuscunà manovra a vista le sue creature, quasi a rivendicarne non solo l’autorialità, ma anche la piena responsabilità.
E va avanti così, da anni, sfornando operette, la cui leggiadria, pulizia e rigore formale cortocircuitano col senso.
“Il canto della caduta”
Ultimo dei tre spettacoli in scena al Piccolo, in questo la Cuscunà ripercorre una delle più identitarie narrazioni epiche dei Ladini. È l’epopea di Dolasilla, mitica principessa guerriera, simbolo del potere originariamente trasmesso in linea femminile.
La Cuscunà lo carica di un preciso messaggio politico, rivendicando l’inalienabilità di quel totem, originariamente trasmesso di madre in figlia, nel mitico periodo della pace primigenia. Solo lo strenuo tentativo di preservare il popolo dalla ferocia dell’oppressore induce la Regina a consegnarlo, in un matrimonio-patto di non belligeranza, a colui che sarebbe diventato primo Re – innescando, così, una serie di precipitosi eventi, segnati da questo, a suo modo, tradimento. Non meno pressante è l’insistenza sull’amargi, sacro nucleo di prescrizioni tanto arcaiche, quanto inviolabili, rivendicanti, prima fra tutte, la salvaguardia dei figli e dei bambini. Eppure, nei suoi deliri di conquista, il Re fa della sua stessa figlia, la formidabile amazzone Dolasilla, una guerriera – salvo poi sacrificarla in una rovinosa battaglia, la cui fraudolenta sconfitta era stata da lui stesso concordata –; e neppure il piccolo Aylan, uno dei bimbi nascosti dalla Regina nel ventre delle Dolomiti e affidati al popolo a lei amico delle Marmotte in attesa che la guerra finisse, verrà risparmiato.
Epico scontro fra due mondi/Weltanschauung
“Cantami, o Diva…” Anche questa storia avrebbe potuto iniziare così. La trama, infatti, narra l’epos dell’antico popolo dei Ladini; è l’epopea del Regno dei Fanes, nucleo della mitologia dolomitica. La Cuscunà sceglie di affidarne l’incipit a corvi, che, dall’alto, scrutano e gracchiano gli eventi della battaglia con tutta la prosaica ferocia, di cui solo figure così, marionette meccaniche dai riflessi e dalla freddezza metallici, possono essere capaci. L’inizio come la fine: “Fa’ che io muoia prima che torni la pace […] Meglio morire sazi oggi, che crepare di fame domani”, a cui fa da controcanto quel: “Come ti piace: al sangue, cruda o ben cotta?” a chiosare l’estremo scempio. Agghiacciante, come quei lampi sinistri, che scorrono fulminei sui piumaggi coriacei dei pennuti. È la banalità del male, il sempiterno mors tua vita mea, di chi abbia come unica egoistica preoccupazione quella di riempirsi la pancia – e, in senso lato, ci sentiamo tutti un po’ sotto accusa…
La scena è dominata da una struttura metallica, che stilizza le linee essenziali delle Dolomiti: in alto, incombono i corvi, centrale, lo schermo, che trasmette l’immagine della dura parete rocciosa – ma che poi servirà anche per farci assaporare il colore delle voci senza voce dei grandi assenti: Dolasilla, il Re e gli altri protagonisti umani – e, in basso, nel cuore duro e freddo della montagna, il piccolo Aylan e Hudea. Sono due dei bimbi, che la Regina aveva affidato, chissà quanti secoli prima, alle marmotte, affinché li custodissero in attesa che tornasse la pace. La Cuscunà li forgia come figurine diafane, ma dalle fattezze tenere, nonostante il pallore di quel materiale duro, che ricorda la preziosa malleabilità dell’avorio. Portano un muso di topo come copricapo a onorare il monito delle Antenate Marmotte: “Far finta di essere topi” per avere maggiori possibilità di sopravvivenza – ché: “I cecchini non sparano ai topi…”, ricorda, in un soffio, Hudea al piccolo Aylan deciso a uscire dal nascondiglio in preda ai morsi della fame. Pleonastico sciorinare le moltitudini di adulti-bimbini sfruttati in varie parti del mondo.
E, intanto, nella pancia del palco, sul monitor scorrono le opposte motivazioni dei protagonisti: la voce bianca di Dolasilla, vergine guerriera e portatrice di un mondo ideale, quella vermiglia del padre, spregiudicato sanguinario promulgatore di un ordine nuovo, per attuare il quale non esita a sacrificare la sua stessa figlia e il composto nero su bianco delle didascalie, ad integrare quanto manca.
Leggerezza e ponderatezza
Ecco come la Cuscunà sceglie di raccontarci quella, che può esser e considerata l’unica saga, nata sul territorio italiano, che possa considerarsi paragonabile ai grandi cicli leggendari europei (come quello arturiano o quello nibelungico). E lo fa con un enorme dispendio di energie (fisiche e vocali, certo, ma anche ideative, oltre che di coordinazione di più maestranze in base alle loro specifiche competenze e di scrittura, continuamente giocata sul filo dell’allusione al calembour tratto dal riferimento al mondo degli uccelli, ad esempio, nel beccar dei corvi, oltre che di sinergie produttive e distributive, perché, non scordiamolo, anche quello artistico è un prodotto – e, se non circola, non vive). Eppure in scena tutto questo arriva con la naturalezza delle cose che funzionano: nessuna problematizzazione – se non, giustamente, da parte degli addetti ai lavori, per esaltarne i merito -, ma solo il pietoso, disturbante sgomento e la sinestesia di quel rossore nel cielo, che avvampa il campo dell’estrema battaglia, di chi, all’improvviso, veda cadere il velo di Maia e si scopra, volente o nolente, chiamato in causa nel brivido di chiosa.