Milano OFF Fringe Festival #1: storie che avvicinano
Dal 18 settembre e fino a domenica 2 ottobre 2022, Milano è pervasa dall’omonimo Fringe Festival di Teatro Off. Ideato, voluto e tenacemente costruito da Renato Lombardo e Francesca Vitale (forti già dell’esperienza catanese di Palco Off), è gemellato col Catania Off Fringe Festival, che quest’anno invaderà i quartiere della città dal 16 al 30 ottobre.
Milano OFF Fringe Festival: il progetto
Era un piovoso ponte del 2 giugno, quando, nel 2016, andò in scena la prima edizione il Milano Off, festival di teatro indipendente, fin da subito con l’ambizione, poi mantenuta, di porsi come un evento diffuso, multidisciplinare e inclusivo. Così, a distanza di sole tre edizioni (ci si è mezzo in mezzo il lockdown con quella frattura, per moltissimi altri fatale…), questa quarta presenta un’esplosione di spazi coinvolti (24, fra cui alcuni prestigiosissimi come il Piccolo Teatro di Milano o la Società Umanitaria), numero di spettacoli (50, in replica a turnazione, nelle singole location), compagnie nazionali e internazionali (con esibizioni anche il lingua originale), sezioni (drammaturgia internazionale, drammaturgia off nazionale, musica/lirica off e formazione speciale), ambiti (non solo teatro, ma anche danza, clownerie, letture, mostre, concerti, teatro ragazzi, teatro fisico), eventi collaterali (il cosiddetto Off dell’off ovvero workshop, dibattiti, speed dates, solo per citarne alcuni), testimonial (Raul Cremona, Enrico Intra e Pamela Villoresi, fra gli altri), partner artistici e una rete di teatri/festival come anche concreta possibilità di far circuitare gli spettacoli.
Altro elemento realmente inclusivo è la possibilità per il pubblico di diventare parte reale del festival, rendendosi disponibili come volontari o anche ospitando un attore/compagnia – e solo chi ha mai avuto occasione di farlo conosce lo strabiliante arricchimento di vivere a contatto con questi mondi e narrazioni tanto lontani da luoghi comuni, quanto, spesso, affascinanti e arricchenti. Il tutto è in perfetta linea con quel concetto di F.I.L., Felicità Interna Lorda, che, strizzando l’occhio al più austero PIL (Prodotto Interno Lordo), inventa una card con agevolazioni sia sugli eventi che nei negozi associati. Lungi, pertanto, da facili snobismi intellettualoidi, in filigrana, dice di un teatro e di una cultura, che non sono solo la pur sacrosanta icona ipostatizzata e ideale, ma anche le teste – e le pance! -, che poi di questi lavori vorrebbero legittimamente vivere.
E che ne è scaturito, da queste premesse? Giovedì 29 settembre ho avuto modo di assistere ai miei primi due spettacoli.
“Con naso in su”: la storia siamo noi
“Con naso in su” di e con Andrea Zanacchi è nel palinsesto alla Casa Museo Spazio Tadini. Regia di Antonio Grosso e accompagnamento musicale dal vivo della violoncellista Laura Benvenga (curatrice anche delle musiche) è un monologo, che parla di storie. In controluce alla vicenda biografica di Nino, strampalato arguto clochard, sprazzi di quella storia – più spesso con la s minuscola -, che attraversa le nostre storie. E, questo, ce lo fa subito sentire vicino.
La trama
Tutto nasce dal fortunoso controverso incontro con Marco, ragazzino solo evocato in scena, a cui si racconta – con quella foga e quell’istrionismo tipici di chi sia tanto poco abituato ad essere ascoltato, quanto, per contro, bramoso appunto di raccontarsi. Dalle merendine del Mulino Bianco alle raccolte-punti, dal Karaoke all’idealizzazione/appropriazione dei personaggi del piccolo schermo a mo’ di personalissima rivalsa individuale, eccolo, l’affresco di quegli anni ’80 che, complice il candore della sua età infantile, sembravano promettere tutto a tutti – o, almeno, regalare a ciascuno l’illusione che bastasse vincere a un quiz televisivo per svoltare davvero.
Eppure erano anche gli anni di Chernobyl, che, ai suoi occhi bambini, si traduceva nel desiderio negato di bere il latte per paura fosse contaminato; in filigrana a ciò, le apprensioni dell’italica madre e quel mondo familiare fatto di terroni e figli di seconde generazioni – chissà se poi tanto diverse da quelle di cui tanto si discute oggi -, dove l’equilibrismo fra culture, razzismi ingiudicati e ammiccanti opinioni non generava dibattiti a tema. E poi i crolli delle case abusive, credute sicure e incrollabili – “Ci dicevano di fidarci e noi ci fidavamo”, l’amaro epilogo – come quelle Torri Gemelle, che, loro pure… E quel mondo violato, che non sarebbe stato più lo stesso.
Appunti critici
Un testo ben congeniato, quindi, che, dietro al riso sardonico di un attore/mattatore alla Gigi Proietti, nasconde il desiderio di raccontare e di raccontarsi. La Storia siamo noi, cantava De Gregori; e ciascuno a suo modo può essere paradigma e interprete attraverso cui possa incarnarsi quella Storia, d’hegeliana memoria, che procede per tesi e antitesi – e sintesi, che non sono mai soltanto la conciliazione di quelle contraddizioni. Scenografie accurate, nella loro ricercata trascuratezza, e luci capaci d’incupirsi nei momenti clou.
Di certo una narrazione istrionica, costruita più per tipi, che non indugia in una stanislavskijana ricerca di reale verosimiglianza e nulla cede al sentimentalismo. Così, unica nota forse dolente, resta la giustapposizione del violoncello dal vivo – che pare essere più di corollario che parte integrante o quanto meno davvero dialogante col resto dello spettacolo.
“Alla ricerca di Kaidara”
A Isolacasa, fino a domenica 2 ottobre, di scena, fra l’altro, lo spettacolo per ragazzi “Alla ricerca di Kaidara”. Ispirato ad un racconto iniziatico della tradizione africana, mette in campo i classici argomenti del genere in questione: il viaggio, la scoperta, il rispetto di anziani, deboli e tradizioni, il vero valore delle cose, l’amore per la conoscenza e, alla fine, la vittoria, in senso figurato, non del più forte o del più cupido, ma del più buono e saggio. Stupisce quanto tutto ciò profumi di nostoi e di quelle discese negli inferi, che da Ofeo a Ulisse a Dante, costellano i racconti anche della nostra cultura classica; stupisce – e, ipso facto, non può non avvicinare – quanto le vere ricchezze e universalmente parrebbero essere non siano quelle tangibili – e vien da chiedersi allora perché di fatto poi il mondo danzi su corde pizzicate da altre priorità…
Degno di menzione è il modo con cui Giordano Vincenzo Amato, autore e regista, affida questi argomenti alla partitura fisica di Amandine Delclos, che ne fa una narrazione garbata e coinvolgente. Complici i teli alle sue spalle – neri, all’inizio, ma basta una semplice giravolta perché si trasformino in fondali dalle sagome coloratissime e dai tratti quasi batik – e la musica – canti africani dai ritmi vivaci e il cui volume, sapientemente modulato, contribuisce in modo perfetto al coinvolgimento emozionale -, ed ecco che il solo spostamento della maschera, basta a trasformare il Teschio narratore nei vari personaggi – ciascuno ben riconoscibile per il suo personalissimo timbro di voce e per quelle dinamiche quasi comiche, che certo facilitano l’interpretazione e l’attenzione del giovane pubblico d’elezione. Interessante, poi, è anche il lavoro fisico dell’attrice nel riprodurre quella sinuosità quasi felina e quella gestualità quasi enfatica, che effettivamente pare rubata alla prossemica di rituali tribali. Se si aggiunge poi la perfetta sospensione (temporale, ma anche gravitazionale) della caduta in mare (e, anche qui: il lavoro fisico, di certo, ma anche le luci blu e la musica, gridata all’impazzata quasi per traghettarci davvero in un’altra dimensione) e, in generale, la corretta respirazione dei ritmi e delle pause (senza fretta, ma, in un paziente gioco di pieno-e-vuoto in consonanza con quell’Hakuna matata, che più che i problemi, quel che pare scongiurare è la fretta, che spesso li genera), ecco che si compone il quadro di questo spettacolo accurato, dalla freschezza forse ancora un poco acerba, ma certo esito di un lavoro a più livelli e dall’esito già felice.