NuoveStorie_Malagrazia e l’Isola-che-non-c’è
È iniziata con “Malagrazia” “Nuove Storie”, la rassegna di drammaturgia contemporanea attraverso cui già da qualche anno il Teatro Elfo Puccini di Milano ospita spettacoli di compagnie che difficilmente riuscirebbero a circuitare in spazi non off. Non importa che sia per la giovane età degli artisti o per la specificità della loro proposta, pregevole è questo desiderio di sostenere non solo quei tipi da bando che sono gli under 35. Così, accolti in quella sala Bausch originariamente pensata come uno spazio prove da proteggere dal contatto col pubblico, gli spettatori si trovano a condividere proposte teatrali inusuali e in una condizione di prossimità fisica davvero sfidante. Eppure il format funziona al punto che, da quest’anno, il neo direttore artistico Francesco Frongia sceglie di farne una sorta di mini festival – a tema “Nuove Famiglie” -, concentrato dal 27 aprile al 20 maggio 2018, anziché diluirne la proposta nel corso dell’intera stagione com’era stato nelle precedenti edizioni.
È stata “Malagrazia”, come si diceva, a dar l’avvio alle danze dal 27 al 29 aprile 2018. Progetto pensato e voluto da Giuseppe Isgrò, regista e anima della compagnia Phoebe Zeitgeist, la drammaturgia viene affidata a Michelangelo Zeno, giovane, ma già noto nel panorama teatrale milanese underground. Il progetto è ambizioso: raccontare la storia di questa famiglia atipica – “ogni famiglia ha un segreto e il segreto è che non è come le altre famiglie”, recita, il sommario/slogan di quest’edizione di “Nuove Storie”/”Nuove Famiglie” – attraverso la surreale vicenda di due fratelli. Rinchiusi in un bunker fin dalla nascita, si trovano a gestire il loro delirio a due nell’invenzione di un mondo, che pure resta loro negato e sconosciuto; al tempo stesso la loro è anche una resistenza a quel mondo segnato dal germe della morte, mentre i due adolescenti pensano che, finché resteranno nel loro luogo protetto, saranno esenti da ogni male. Questa è al tempo stesso la loro grazia, traducibile forse con ingenuità, e pure la cosa mala che si annida nel loro cuore comunque umano e inevitabilmente ferino, al punto che, nonostante rari momenti di confidenza e di un’intimità a volte al limite del dicibile, i due non si risparmiano aggressività e soverchierie reciproche con declini anche feroci verso quella malagrazia, che qui colora il termine grazia con la valenza di norma, regola codificata e consensualmente accettata, da cui i due sono ipso facto fuori.
Nonostante quest’equilibrismo sul baratro del non-senso (come avranno fatto a sopravvivere, da soli, per così tanto tempo, ci si potrebbe domandare), non è tanto la trama ad essere sfidante; notevole, invece, arriva quella dichiarazione d’intenti che riferisce come il lavoro parta da uno studio dedicato a Franco Scaldati, alla sua parola viva e ai suoi personaggi. Coadiuvato dalla onnipresente Francesca Marianna Consonni, il regista sceglie una partitura precisa e curata – a tratti sofisticata -, ma troppo spesso gridata, eccessiva e con un intento provocatorio tanto sfacciato, da risultar ingenuo. L’inevitabile effetto è di rovesciare quasi solo in una esteriorità fisica quell’inquietante, che nella poetica di Scaldati aleggia invece denso eppure sospeso e impalpabile; stigma di questa traslazione è la struttura appesa in primo piano sul proscenio a simboleggiare ora quelle ossa a cui anche questi farneticanti nuovi creatori sono comunque destinati a ridursi, ora quella farfalla, che, nelle fantasie dei due ignari fanciulli, allo stesso modo simboleggia bellezza e libertà come anche vampiresca ferocia – oltre a forse alludere, nel solo istante della svolta verso un tentativo di età adulta, alla totemica immagine del genitore perduto. Così il lirico e il surreale di Scaldati qui si volgono in un grottesco e sferzante – chiamarlo disturbante sarebbe scomodare una categoria troppo alta -, che i due giovani attori, Edoardo Barbone e Daniele Fedeli – i ferri del mestiere ben affilati e ancor lucenti d’accademia -, restituiscono con una generosità e una bravura plastica e interpretativa senz’altro apprezzabili e ben declinate.
Peccato, perché si capisce che si tratta di un lavoro studiato in modo scrupoloso e poi trasferito in scena con attenzione – suggestivi i giochi d’ombra e l’apparato sound ad opera di Stefano De Ponti oltre che i movimenti scenici, millimetrici, in certi appuntamenti/passaggi -; anche la realizzazione formale è curata pur nella preferenza per il brutto, anch’esso del resto categoria estetica e di certo appartenente alla cifra anti estetizzante di Isgrò. Poi la scelta di trasporre la lingua di Scaldati in un perfetto italiano, fatto salvo per alcuni dialettismi e qualche verbo che, alla siciliana, si sposta in chiusura di frase, porta lontano dalle suggestioni e da quel quasi realismo magico, che qui invece acquista la spavalderia provocatoria di chi voglia stupire a tutti i costi. Così “Malagrazia” si esaurisce forse solo nell’Isola che non c’è di due pre adolescenti infondo più annoiati che allarmati e ancora indecisi fra i giochi infantili e le prime curiosità (auto)erotiche proiettive di un mondo adulto.
Dal 2 al 4 maggio la rassegna proseguirà con “Maledetta Metropoli” di Fabio Modesti.