NuoveStorie_XY, siamo uomini o padri?
Si è concluso con “XY”, in scena dal 18 al 20 maggio, il festival “Nuove Storie/Nuove Famiglie” 2018 al Teatro Elfo Puccini di Milano. Il progetto, dell’attore e performer Emiliano Brioschi, con il sostegno di Mixitè Festival ed Emilia Romagna Teatro Fondazione, ha portato in scena tre micro drammaturgie attorno non tanto alla figura maschile allusa nel titolo, quanto al suo confronto con la genitorialità. Eppure qui non si parla del ruolo paterno agito, ma dell’autoanalisi dell’esser padre, qualunque cosa questo possa voler dire per ciascuno.
A fondo scena campeggia l’enorme silhouette della coppia cromosomica xy con la sua presenza costante, ma discreta, che solo alla fine si accenderà a monito; per tutto il tempo resterà lì, a sparigliare le carte di un cammino dal maschio verso… quale ruolo? Saranno proprio queste tre stazioni di una laicissima via crucis a suggerirci alcune declinazioni possibili del tarlo della nostra società, che Lacan ha definito la società senza padri.
E cosa succede ai piedi di questo minimalistico totem della capacità generativa maschile? Ucciso Chronos divoratore di figli – il mito insegna che venne evirato e cioè depauperato esattamente di quella capacità riproduttiva, che è al tempo stesso potenza e minaccia -, pare che non resti che il tabù di contemporanei omuncoli alle prese con le proprie fragilità. “Se questo è un padre…” verrebbe da chiosare, parafrasando Primo Levi, specie a conclusione dell’ultimo episodio, scritto secondo il canone retorico dell’arringa forense. Eppure non c’è giudizio; al contrario, un’ umanissima pietas, che non può che lasciar spiazzati e con la pelle d’oca.
La composizione del progetto si articola secondo un climax ascendente, visivamente amplificato dalla passatoia rossa che si srotola a mo’ di diagonale scenica. Apre con “Buddy Love” di Renata Ciaravino (Premio Franco Enriquez), prosegue con “Valentina” di Giuseppe Massa (nomination al Premio Ubu 2016 per “Sutta Scupa”) e si conclude con “La Pratica del Dolore” di Cristian Ceresoli (autore, fra l’altro, dell’acclamatissima “Merda”, tradotta e rappresentata in tutto il mondo); testi e autori differenti, sì, ma che hanno in comune una personalissima riflessione sulla paternità: subita, mancata o perduta. Eppure il registro di Brioschi resta identico: un’imperturbabile raffica di parole dalla rotondità ben scandita e dall’emotività trattenuta (solo a tratti spinta), che ben si addice al testimone, che non ha bisogno di caricare d’enfasi parole perfettamente calibrate. E il suo gesto di medium attorale si ammanta di significato politico. Altrettanto chirurgica e misurata risulta la sua mimica, capace di esprimersi lavorando sempre per sottrazione e anti congestione, così come essenziale e perfettamente leggibile è la regia, giocata sul tema del doppio (aspirazione/realtà, uomo/donna, accusato/difensore), che tratteggia situazioni e spazi espliciti, lineari e perfettamente leggibili anche nelle valenze simboliche. Così è in “Buddy Love”, controcanto e canto di una mancata star, che, fra struggimento e frustrazione, tenerezza per la compagnia e il figlio, ma anche bisogno di sentirsi riconosciuto e apprezzato per se solo, racconta di quella sua paternità subita, a cui imputa la colpa di una carriera artistica fatta di stenti; basta la sola alternanza di luci o degli stessi oggetti di scena ora inquadrati, ora rimossi, a svelare il suo bluff più profondo e cioè lo scollamento fra la spalla che è e il front man che non sarebbe comunque. Così è in “Valentina”, sorprendente monologo che ci stordisce con una giaculatoria di nomi propri – con tanto di relativo significato, colore e pietra preziosa associati -, per affondare nella delicata tematica della ricerca di un figlio all’interno di una coppia che non riesce ad averne: le pratiche, credenze, aspettative, illusioni, delusioni… Curioso come il gioco con le sedioline, logica allusione a quel maschietto o femmiuccia attorno a cui la verbosa moglie affabula, si rivelino invece gli inadeguati seggi di una coppia che non potrà che scoppiare, fagocitata dall’accanimento di lei e dalla resa di lui, auto relegatosi a ruolo di uomo-inseminatore di un figlio che forse già detesta. Di tutt’altra natura, invece, è il sentimento del padre, criminale ginecologo de “La Pratica del Dolore”, condannato – “e giustamente”, ci dice il suo avvocato – per l’ingannevole interruzione di gravidanza di donne a cui aveva fatto credere di avere in corpo feti non perfettamente sani. La sorprendente scrittura di Ceresoli mixa una retorica forense dal florilegio di latinismi all’azzeccagarbugli (che Brioschi efficacemente declama in piedi su un cubo a centro palco) con la disarmante umanità di un padre che ancora stenta a rendersi conto non tanto di quel che ha fatto, ma di come sarà possibile agire in modo diverso per preservare altri esseri umani dalla devastante esperienza del dolore. È una bomba emotiva che mette a soqquadro le nostre certezze, accompagnandoci per mano fino a quella compassione che, se non ci permette di perdonare – “giustamente”, aveva detto il suo stesso avvocato a proposito della condanna –, ci consente almeno di provare a comprendere.
Ovvio che, con storie, così non ci sia bisogno di gridare; ed è proprio col suo tono asciutto e straniato, la sua mimica felice e mai ostentata, la sua emotività sempre trattenuta, che Emiliano Brioschi ci ha consentito di lasciarci raggiungere – e poi sopraffare – da un’emozione che è anche un pensiero e una riflessione: sulla fragilità di uomini forse ancora troppo irrisolti per poter accedere all’età adulta della genitorialità – al di à di quel che il senso del dovere o le aspettative sociali impongono loro – o forse solo sopraffatti da una condizione d’orfani non ancora elaborata abbastanza, da renderli idonei ad assumere in sé il ruolo di quei padri che non sono totem, così come loro non sono tabù.