Ottocentesco divertissement di Bucci/Sgrosso… fino al midollo dell’Arte!
Sembrerebbe una boutade alla Monsieur de La Palisse: andare a teatro e uscirne soddisfatti per aver assistito a uno spettacolo ben fatto, scritto in modo coerente, recitato con garbo, passione, scuola e maestria – piaccia o non piaccia, nello specifico, la cifra ormai stigmatica della compagnia -; e con una regia accorta e attenta a variare il ritmo, i tempi, le pause, i registri – senza dimenticar di sfruttare in modo ottimale lo spazio e i coup de théâtre, che il pur minuscolo palco di un teatro di tradizione, come il Gerolamo di Milano, può offrire.
Il risultato? Uno spettacolo prezioso, che, come molti di quelli che passano, appunto, al Gerolamo, andrebbe solo goduto. Lo spettacolo è “Ottocento” de Le Belle Bandiere, storica compagnia figlia della scuola di Leo De Berardinis, andato in scena dal 29 al 31 marzo 2019. Il teatro, come dicevamo, è quel Gerolamo, fondato nel lontano 1868, qual sorta di “Teatro alla Scala” in miniatura, e, per molti anni, fino al 1957, gestito dai Colla, dalla cui marionetta principale prende nome. Anche gli spettacoli della Compagnia Marionettistica Carlo Colla e figli – uno dei due rami ‘eredi’ di quella tradizione – tornano, ancora oggi, ad impreziosirne la programmazione. Insieme a loro, altre eccellenze del teatro popolare di figura, quali – da tutt’altra latitudine – i Figli d’Arte Cuticchio, che potremo vedere in scena, dal 3 al 5 maggio, in un curioso incontro fra i pupi e lo shakespeariano “Cimbellino”.
“Ottocento” è una chicca. Nasce dal desiderio di Elena Bucci e Marco Sgrosso di ripercorrere le stanze di quel secolo così fondante non solo per tanta parte della letteratura moderna, ma anche per la presa di coscienza di moti storici e movimenti politici e culturali, che andarono nelle direzione del progresso, della libertà e dell’emancipazione – per non tacere di quel Risorgimento, che ci fece Nazione. Ci accompagnano, in questo viaggio ideale e all’insegna della meraviglia, con lo spirito sospeso e lo sguardo leggero del fanciullino. Quel che impressiona – oltre, ça va sans dire, alla loro impeccabile tecnica e arte recitativa – è la coerenza drammaturgica dei segni, che si mescolano ai testi (in parte rielaborazioni o riscritture, in parte stesure originali e perfettamente coerenti) in un fluire osmotico.
Così, già il fischio del treno e la subitanea proiezione, in controluce, delle silouhettes di Giovacchino e Clotilde in abiti d’epoca dicono: “Ottocento”. E se anche quel secolo fu in effetti di poco preceduto dalla spaventosa irruzione dell’immagine del mostro a vapore nella sala cinematografica ad opera dei fratelli Lumière, sono esattamente questi, i suoi segni e i suoi stigmi. Insieme a loro sbarchiamo, fra i fumi, dalla macchina possente e, con loro, ci troviamo a curiosare, timidamente, in quelle stanze immense e dai altissimi soffitti. Nella penombra già un po’ gotica, si nascondono gli eroi e le eroine della grande stagione del romanzo. Sono quelli usciti dalle penne di Victor Hugo, Emily Dickinson, la Brontë… Anton Cechov, Gustave Flaubert, George Sand e Frédéric Chopin e poi ancora Charles Baudelaire, Guy De Maupassant, Thomas Mann… Henrik Ibsen, Gogol, Tolstoj e Dostoevskij… fino alle evocazioni delle creazioni di Bram Stoker, Edgar Allan Poe e Mary Shelley.
“Perché gli spettri ti possiedano/non c’è bisogno di essere una stanza. […] La mente ha corridoi/ che vanno oltre lo spazio mentale. Assai più sicuro un incontro a Mezzanotte/con un fantasma […] Piuttosto che incontrare, disarmati,/in solitudine – il proprio io. L’io che si nasconde dietro l’io-/una scossa ben più terrorizzante -/di un assassino in agguato/nella propria casa”, ha scritto Emily Dickinson, nei solinghi deliqui del suo mal sottile ante litteram; ed eccolo, il punto di svolta. Non solo e non tanto una pur pregevole carrellata di personaggi – fantasmi, suggestioni antiche, spesso relegate nelle lande di un’età ormai lontana -, ma la volontà di renderla costante occasione di incontro col non meno ottocentesco io che si nasconde dietro l’io, di freudiana intuizione. Riflessione, rivendicazione, emozione, commozione e quella così fanciullesca capacità di spiazzare, di fronte a cui volentieri cediamo le armi, toccati nel più autentico sé. E come non farlo, di fronte a questo proclama di amore alla vita – con tutte quelle proiettive ‘indulgenze’, che non possono non renderci empatici -, alla morte, all’arte e al teatro? “Mai per finta, sempre per davvero” E, ancora: “L’arte, per se stessa, non vale niente…”, risuonano manifesti – chissà, involontari, – di una vita spesa a servire un’arte etica, prima ancora che estetica o estetizzante.