Peaseblossom in… dream
Cos’è, questo “I, Peaseblossom”, in scena ai Filodrammatici da martedì scorso? Il riferimento – letterario e letterale – è a Fior di Pisello, uno dei personaggi minori di quella pletora di fate e folletti che affolla – ed impreziosisce – lo shakespeareano “Sogno di una notte di mezza estate”. Ma questo personaggio marginale, lì – è lui stesso a dircelo: recita una sola ma significativa battuta, nel testo originario: “Sono pronto!” -, diventa, qui, il protagonista di questo gioco e sogno – a sua volta. Si carica anche del mandato dell’interpretazione di Tim Crouch, qui: un Peaseblossom che tutto vede, ma è paralizzato nel suo agire: testimone muto, ma scalpitante…
Questi gli antecedenti letterari, che Matteo Angius/Fior di Pisello – insieme col fondatore e referente principe de L’Accademia degli Artefatti: Fabrizio Arcuri, qui, come spesso, anche regista – si diverte a rivisitare, raccontare, richiamare in vita in un giocoso coinvolgimento col pubblico, che assiste incredulo, ma poi divertito alla deflagrazione della quarta parete, che lo vede chiamato in causa fra imbarazzo e ilarità.
Già: ma che bisogno c’era di quest’ennesima rivisitazione di Shakespeare? In realtà ce l’ha, un suo senso: eccome. Perché questo improbabile personaggio – un ragazzo dalla decisa connotazione etero, contrariamente a quanto il ruolo potrebbe far pensare, ma vestito ad interpretare una fatina… ed è lì che cortocircuita la coerenza visivo-formale: lasciando affiorare l’arguta intuizione di farne l’emblema dell’adolescenza – fa suoi i modi propri di una fanciullezza giocosa, curiosa, un po’ confusionaria nel riferire fatti eventi come se – quest’ è l’intenzione – intuisca soltanto: più un per sentito dire, probabilmente, ma senza conoscerlo per averlo sperimentato. Così accenna spesso al fatto che, in quel bosco, sono disperse coppie di amanti: e tutto è alluso, nebbioso – come i fantasmi che si aggirano fra le brume della notte precedente le nozze -, pruriginoso, quasi – e lui stesso, non a caso, ad un certo punto vien preso da un irrefrenabile desiderio di grattarsi… -, confusionario – i giochi fra le coppie, che amano, per un bizzarro scherzo delle circostanze, ciascuno chi non dovrebbe.
Ma il senso della messa in scena drammaturgica è giustificato perché, fin da subito, Fior di Pisello torna a ripetere che ha qualcosa da dire – lì, proprio sulla punta della lingua…-, ma poi ogni volta lo dimentica: “Mi tornerà in mente…”, si scusa. E poi all’improvviso gli affiora alle labbra – così, passato quasi in sordina – praticamente senza che se ne accorga, quel pubblico oramai coinvolto e divertito…
Il nodo narrativo sta nel monito con cui mette in guardia gli spettatori-complici, a cui ha gettato fiori: che non li tocchino e, qualora lo facessero, che non si sfiorino gli occhi. In caso contrario succederà a loro com’è successo già a Titania, regina delle fate, a cui il perfido Oberon, re suo sposo, per una sottile ripicca ha fatto spalmarle gli occhi del magico succo di fiore. Potrebbe succedere anche a loro d’innamorarsi della prima creatura vivente che vedranno.
Ovviamente sembra solo un lazzo scenico per potersi reinserire nella trama de “Il sogno…”; eppure, a ben pensarci, funge un po’ da coro, se con questo s’intende, manzonianamente, quel cantuccio che l’autore ritaglia per sé per poter esprimere la propria visione delle cose. Ed è qui, infatti, che affiora tutto lo spirito fanciullino – quello del Pascoli, nel “Gelsomino Notturno” -: incuriosito, per certi aspetti , ma poi ignaro; e che, dunque, non sa partecipare di quel che accade proprio sotto ai suoi occhi. “Non credete ai vostri sentimenti – sembra ammonire – […] voi credete che sia Amore”; poi, quasi a prenderne le distanze: “Se questo è Amore, io non voglio saperne.” e, poco dopo: “Io mi gratto…” con evidente riferimento ad una stagione preadolescenziale, in cui iniziano, sì, i pruriti, ma la maturità non è ancora tale da cercarne una realizzazione relazionale.
Tutto già ci parlava di quell’età: fin dalla scenografia alla ‘the day’ after dei residui di una chiassosa festa; l’allusione è alla trama shakespereana del triplice matrimonio, ma la tovaglia a scacchi, i piatti di carta rossi, i coriandoli, le lampadine colorate amatorialmente ci dicono di un party di ragazzini degenerato: pezzi di torta per terra, gocce di vino sulla tovaglia… fino al vomito: conseguenze delle prime sbornie. E, sempre a proposito di scenografia, azzeccato e divertente è pure il modo di alludere alla compagnia di attori greci che sta preparando lo spettacolo per le nozze: una versatile struttura in legno – calata dal soffitto proprio sulla tavola dei festeggiamenti -, da cui pendono oggetti a significare i vari personaggi – Robin Starveling, alias il Morto di fame, ad esempio, rappresentato da uno scheletro. Dunque: una chiassosa e coinvolgente baruffa, visibile ai Filodrammatici ancora fino a domenica; a dimostrazione che ridendo e scherzando si può dire tutto: con la scusa che è solo un sogno…