“Peer Gynt”, ammaliante delirio-suite

Che differenza c’è fra sogno e realtà? E fra una storia, una bugia e una profezia? E fra delirio e follia – e fantasia? Forse la stessa che passa fra un uomo e un troll, che, Ibsen docet, sta nel fatto che non occorre essere se stessi, ma basta essere come si è. Questo imprime nell’uomo il marchio del troll.

Eccole, le prime suggestioni tratte da “Peer Gynt” di Ibsen, in scena dal 12 al 19 marzo 2019 al Teatro Franco Parenti di Milano. Un progetto di Federica Fracassi e Luca Micheletti, che ne curano la riduzione, oltre che esserne protagonisti in scena. La regia è firmata dallo stesso Micheletti, in una realizzazione sulla carta difficile – al punto che questa drammaturgia non era stata scritta per essere portata in scena –, eppure splendidamente riuscita. L’intuizione è quella di far esplodere questi fantasmi in uno spettacolo itinerante; e quale location migliore dei Bagni Misteriosi (ex piscina Botta, da qualche stagione soltanto riabilitata e inclusa negli spazi del Teatro Parenti)? Volutamente alcuni luoghi sono stati lasciati a rustico. L’effetto che ne consegue è di trovarsi in un luogo della memoria che, coi suoi stanzoni alti e le pareti affrescate dall’umidità e dai suggestivi giochi di luci di taglio e penombre color penicillina, per assonanza ci proiettano nei dismessi luoghi non diversamente spettrali della sanità psichiatrica.

© Francesco Bozzo

Tutto parla di passato, qui, e di studiata incuria, alludendo al contempo sia alle condizioni economiche del protagonista e della madre (caduti in miseria, dopo l’abbandono da parte del padre/marito), ma anche a quel delirio onirico (questa la grande forza e chiave narrativa dell’allestimento), un po’ gotico e così terribilmente romantico (nell’accezione storico-letteraria del termine), di fronte a cui non si può che capitolare. Ma quello a cui ci arrendiamo, è anzi tutto il progetto ambizioso eppure realizzato con una coerenza, cura, attenzione, dedizione, che nemmeno per un istante scordano cosa significhi fare teatro in senso certo tradizionale, ma non per questo meno apprezzabile. In più, riescono a sposare insieme performance e declamazione, genere drammatico e noir, musica da camera (al piano Lorenzo Grossi, liberamente ri arrangiando le colonne originali che furono scritte da Edvard Grieg) non solo con l’irrompere del canto lirico (suggestivamente eseguito dal sopranoAnna Roberta Sorbo), ma, inaspettatamente, con una sensualissima danza arabeggiante a suon di sonagli, che con grazia e non senza una certa qual dose di malizia agita la danzatrice e coreografa Lidia Carew. Così tutto svapora e si affastella, in questo non-racconto (siamo lontanissimi dal susseguirsi logico/cronologico di una trama), in cui la maestria e la suggestione, il virtuosismo ed una certa qual certa dose di pur evocata e derisa gigioneria, la fanno da padroni. Eppure non infastidisce, il sapientemente giocato attacco alla critica (materiale tutto mutuato dal testo originario) o l’ammiccante ricerca d’intesa, a suon di allusioni non sempre solo un pizzico appena politically scorrect, con cui quel satasso di Micheletti (carismatico e contagioso in questo ruolo) ammicca al pubblico, attirato dalle movenze della danzatrice da mille e una notte, in una stanzetta spoglia in un sotterraneo. Sulle nostre teste, intanto, continua a dimenarsi lei, nell’improbabile spiazzante prospettiva di una soffittatura in vetro che ce la rende fatale e dominante come uno splendido incubo.

© Francesco Bozzo

Tornare alla realtà, oramai non è più possibile, dopo aver cavalcato nei surreali sogni di Peer/Micheletto, dove ogni volta non sai se sia racconto o delirio. La differenza fra la vita e il sogno? Chiedetela a Rimbaud e ai suoi commerci in Africa o alle mille vite di D’Annunzio.

© Francesco Bozzo

Quel che commuove è il suo appassionato, spassionato amore per il sogno, la fiaba, il racconto… il teatro – è chissà quanto di Peer ci sia in Luca (Micheletto) e Federica (Federica), arguti ideatori del progetto sì, ma anche sapienti orchestratori della regia esplosa negli spazi e impeccabili, giocosi e generosi interpreti, del resto come anche gli atri del cast. Chiamatelo pure delirio, è in questo che Peer/Micheletto ci lusinga e accoglie come nella sotterranea stanzetta-confessionale dei suoi estremi sprazzi di lucidità. È qui, che ci affida i suoi ricordi – forse soltanto deliri: ma che importa? Forse profezie, che, come bugie, mentre lo fanno Imperatore sì, ma degli stolti, ironizza (riecheggiano le parole della madre, mirabilmente interpretata da Federica Fracassi, che, ancora una volta, non manca di confermare il suo spessore di attrice drammatica a tutto tondo: emozionale e tecnica), ci rimettono in contatto con filosofia, teologia, parabole sapienziali e prosaiche riflessioni su convenzioni sociali, pescando a piene mani da quelli che furono ibseniani interessi e denunce dell’ipocrisia borghese.

E se nel quadro narrativo successivo viene soverchiato dall’impatto visivo dell’anonimo viaggiatore volante (un affilato, sarcastico, fantasmagorico Alessandro Pezzali, che filiforme aleggia nella luce blu della notte tempestosa a un soffio dal naufragio, irridendo, sardonico, le sue paure), nella scena finale eccolo tornare nell’iconica figura intera. Invecchiato, compare a un funerale, che nel gioco del delirio potrebbe essere anche il suo. Si vende tutto, finalmente scoprendo il valore e il senso di quel che era, era stato o avrebbe dovuto essere o non essere – fino al paradosso, ante sartriano ma già così tremendamente teologico, dell’essere responsabile e colpevole perfino di quel che non si è fatto: delle proprie omissioni.

https://www.teatrofrancoparenti.it/tfp-uploads/2018/09/SPOT_PEER_GYNT.mp4?_=1

Dunque un lavoro visionariamente congeniato, questo “Peer Gynt”, diretto con tocco fermo e pulito e recitato – sembra quasi un anacronismo, ma, in teatro, si recita! – con tecnica, mimesi, capacità prossemica, plasticità interpretativa, guizzo e – cosa ormai assai rara – perizia nel portare la voce, che è strumento e anima dell’attore… al punto da coinvolgere, in questa mirabile arte, anche chi, come Lorenzo Vitalone (qui nel ruolo di un grottesco psichiatra), il teatro solitamente lo fa sotto altre spoglie.