PIGMALIONE E GARO’: stessi germi d’umanesimo

Senza la benché minima concertazione, eppur evidentemente rispondendo a una tacita e consonante comunione d’intenti, negli ultimi dieci giorni, a Milano, sono andati in scena due spettacoli dalla risonanza singolare. Dal 2 al 4 aprile 2025 il Teatro Elfo Puccini ha ospitato “Pigmalione” della compagnia Eco di Fondo, ovvero la biografia di Kurt Gerron, il regista ebreo, a cui il Terzo Reich commissionò il documentario sul “ghetto modello” di Terezin. In data unica, sabato 12 aprile, il Teatro Officina, storica roccaforte di resistenza teatrale, sito solo qualche fermata di metropolitana più in là, in direzione periferia, ha accolto “Garò. Una storia armena”, intenso monologo sul genocidio perpetrato fra il 1915 e 1917, scritto e diretto da Giuseppe di Bello e con Stefano Panzeri.

Stesso cuore

Due spettacoli apparentemente diversi, per molti aspetti – dalla location alla possibilità di raggiungere un pubblico anche quantitativamente differente, fino all’apporto/dispiegamento di ben altri supporti tecnici… Eppure due spettacoli, che condividono la stessa cifra del cuore: una coerenza interna e una straordinaria cura (tecnico documentale, come di scelta drammaturgico registica oltre che attorale) e una grazia capace di porgere, senza alcuna violenza, né rivalsa/provocazione alcuna, pagine di Storia attraverso la storia di uomini, che, volenti o nolenti, ne hanno fatto parte. Due monologhi giocati fin quasi allo strozzo dell’afasia – inevitabile, di fronte a tanta insensata ferocia. Eppure, senza mai scordare il compito, doveroso, della testimonianza, a cui “Garò” offre la terza delle mele portate sulla scena. “Una per chi narra – spiega -, una per chi ascolta… – aggiunge – e, la terza, è per chi saprà ricordare”, chiosa sotto lo sguardo attendo di un pubblico, fra cui sedevano anche il Console Onorario di Armenia Pietro Kuchukyan (con quel suo incipit: “C’è ancora bisogno di parlare dell’eccidio armeno?” e con quel suo amaro chiosare: “Ce n’è ancora bisogno, visti i fatti di pochi giorni fa…”) e la cantante Ani Balian col suo appassionato e appassionante intervento post spettacolo, in bilico fra storia e cuore. 

Le TRE MELE di “Garò. Una storia armena”

Stessa fantasia

Fra le singolari consonanze, stupisce, prima fra tutte, la scelta del punto di vista. Se la storia armena, infatti, ce la restituisce il planare leggero di un Meddah (sorta di cantastorie della tradizione turca) su un Garabed Surmelian/Garò ormai dimentico, in maniera non molto dissimile, la vicenda di Kurt Gerron ci viene resa in soggettiva dal protagonista stesso, ma ugualmente da una dimensione quasi onirica, di sospensione e, allo stesso modo, post mortem. Già, perché se l’esser dimentico di Garò è da attribuirsi all’amnesia provocatagli dal colpo alla testa, che gli costò la vita (e quanto c’è, in questo, della teoria platonica della metempsicosi…), il documentario, essenza e summa dell’esistenza del pur “pavido” “pallone gonfiato” Pigmalione, per un sottile e beffardo gioco della vita, si rivelerà essere incompiuto e poi montato, postumo, da altri, per portare a termine quel delirante prodotto propagandistico.

In ambo i casi, due fiabe – con tutto il portato di tradizione orale afferente a tempi e vicende antichi, sì, ma in stretto rapporto con l’intento di recupero e salvaguardia della memoria degli usi e costumi di un popolo/comunità. Quel che c’è di prezioso, in entrambi, è la capacità di non trasformare in vittimismo lo sguardo delle vittime – e il tono leggero, nel senso di rarefatto, che sa concedersi i mille colori della vita (dal cabaret yiddish con cui si apre “Pigmalione” ai momenti di commozione, festa, risa, paura, guizzo, gioia, terrore, omissione, afasia… e poi struggente memoria, che certo non mancano neppure in “Garò”). Così, poco importa se fin da subito “Garò” sia la voce di un popolo e di una tradizione, mentre “Pigmalione”, forse complice anche il gioco linguistico legato all’allora nascente media cinematografico, rivendichi l’individualità della soggettiva. Poco conta se, questo, lasci trasparire il controverso caso di un fatto storico velato di collaborazionismo – se così, almeno, si può definire il comportamento di alcuni ebrei, nei campi di sterminio, pur di salvarsi… A dirla tutta, la grande intuizione di Gerron pare invece essere proprio che non il lavoro, ma l’arte, renda liberi. Da qui, il suo tentativo di salvare, almeno dalla fame, quanti più ebrei possibile, chiamandoli a comparsa della bella vita, che il suo film aveva il diktat di documentare – lui che, invece, sarebbe morto divorato proprio dai morsi della denutrizione, ancor prima di arrivare alle camere a gas.

Stesso orrore

Fa raggelare il sangue ascoltare gli stessi ordini imposti, rispettivamente, contro Ebrei e Armeni, nei due racconti, dai nazisti, nell’uno, e dai Giovani Turchi, nell’altro: “Preparatevi a lasciare le vostre case, portando con voi solo lo stretto necessario”, viene intimato agli Armeni, negli stessi anni di quella Grande Guerra, documentata, in pellicole dal fronte, da quello stesso Gerron, a cui sarebbe stato imposto di girare il docufilm farsa sul ghetto di Terezin per ingannare i mediatori umanitari della Croce Rossa. “Che la Madre Patria possa esser liberata, una volta e per tutte, da questi ratti armeni”, si sente e che qualsiasi musulmano aiuti un armeno sarà impiccato. E, ancora: “Qualche migliaio di assassini in un milione di silenziosi… e il genocidio è fatto!”, riecheggia dalla voce del Narratore testimone, che poi è costretto ad ammettere: “Potrei farvi piangere… Saprei farvi gridare, ma non lo farò, perché non c’è limiti all’orrore”.

Stessa pietas

Nonostante tutto quest’orrore (reso possibile dalla leggera – questa volta sì, in senso colposo – e accomodante omissione di una maggioranza silenziosa, ma non per questo meno responsabile dell’insinuarsi – e poi il deflagrare! – del delirio di una minoranza prepotente e scellerata, in entrambi i monologhi, non mancano i momenti d’insospettata compassione, solidarietà, pietà – in una parola: umanità… – prima o dopo lo scoppio di conflitti, fra individui appartenenti a fazioni nemiche, sulla carta.

Certo, di questi episodi, ne è più intimamente costellato “Garò”, che ci racconta la coralità di un mondo agricolo pastorale pre conflitto, dove, nonostante le angherie imposte, etnie, pur dichiaratamente nemiche, di fatto cercavano di trovare un modo per convivere, grazie alla sottile abilità di danzare nella pioggia. La ragione di questo probabilmente è da ricercarsi nel diverso respiro, più filosofico, di “Pigmalione”, il cui titolo non a caso sceglie di rievocare la mitica figura dello scultore, che s’innamorò di una statua di Galatea. “L’artista, che s’innamora dell’Arte, che riproduce la Bellezza”, svela, in scena, lo stesso regista ebreo interpretato da un sempre convincente e delicatissimo Giacomo Ferraù, quasi a sustanziare la scelta di intrecciare questa biografia con una sorta di manifesto vocazionale dell’artista quo tale – ivi compreso, probabilmente, lui stesso come attore. Inevitabile il tacito riecheggiare del dostoevskijano “La bellezza salverà il mondo”.

Identità autonome

Per il resto, due narrazioni differenti, per tematiche e identità. L’uno (“Pigmalione”) giocato nella cifra emozionale e sempre sospesa di una compagnia come Eco di Fondo, capace – da “Orfeo ed Euridice” a “La Sirenetta”, da “Dedalo e Icaro” a “Sono solo nella stanza accanto”, solo per ricordarne alcuni – di legare la propria cifra poetica all’evanescente impalpabilità di parole accurate e di tematiche sempre attente alla vulnerabilità dei più fragili, pur senza rinunciare a una poetica dell’immagine e a un rigore recitativo, che brilla per coerenza. L’altro (“Garò”), che ben s’inscrive in quel repertorio di Stefano Panzeri, generoso e versatilissimo ipnotico protagonista di altri monologhi – da “Terra Matta” a “Nel ventre” o “Il Paese delle Facce Gonfie” -, in cui è la stessa cifra quasi naïve e sognante a condurci per mano in territori di denuncia.

Concludendo

Adoro il teatro raccolto e quasi “da camera”, le piccole storie sussurrate in monologhi dalle mille sfumature performative ed emozionali, in cui, a far la differenza, siano la preziosità e la grazia della parola accuratamente scelta, prima, e poi sapientemente giocata. Adoro la sia pur micro dimensione di bisbiglio, ma in grado di seminare germi di umanesimo e speranza, nonostante tutto – e in barba a chi continui a sbraitare che funzioni meglio l’odio. Ecco, per chi, come me, prediligesse questo genere di spettacoli, di certo Eco di Fondo e Stefano Panzeri sono nomi da segnarsi e non perdere di vista… anche in omaggio a quel Teatro di Parola o Teatro di Narrazione, in fondo a suo modo aedo, cantastorie o Meddah – termine, questo, adatto anche a indicare il tipo di spettacolo consistente in una narrazione drammatizzata, in cui si alternano parti raccontate ad altre, in cui il narratore incarna i vari personaggi. Lo sapevate? Dal 2003, il Meddah è annoverato fra i capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità riconosciuti dall’UNESCO.