Pirandelliana ‘lampa’ di Enrico IV
Potrebbe sembrare una pièce un po’ anacronistica e demodée, questo “Enrico IV”, al Litta dal 21 gennaio e fino al 16 febbraio: già il titolo ha la pomposità dei libri di scuola; quasi fosse un capriccio stilistico sul sempiterno tema pirandelliano del rapporto “normalità-pazzia”. Potrebbe sembrare qualcosa di lontano: vicende dal sapore evocativo e storico – di quella Storia d’antan e con la “s” maiuscola -, che certo scalda il cuore ed accende la fantasia; sì, ma poi: cosa c’entra, tutto ciò, con le urgenze del presente? Soltanto un divertissement, quindi, una boccata d’aria da una quotidianità così diversa coi suoi ritmi, umori, colori e suggestioni? Potrebbe.
Se non fosse che il regista, Alberto Oliva, ci ha abituati a ben altro impegno. E quando ti ci accomodi, infatti, ci caschi dentro con tutte le scarpe. Perché ogni singola frase acquista un’eco che risuona a differenti livelli: quello della vicenda rappresentata, certo, ma anche quello dell’inganno giocato e poi – ancora… – quello del ‘coro-punto di vista dello scrittore’, che Pirandello condensa per lo più nel folle protagonista, giocando con la malleabilità di affermazioni e regole che non è così scontato debbano essere per forza coerenti. Le sue riflessioni – spesso a mo’ di boutades – Enrico IV/Mino Manni – attore dalla presenza scenica prepotente ed ipnotica – le dispensa sul senso della realtà e della finzione, su convenzione e pretesa di autenticità, su libertà – che poi non sempre libera – e gabbie, che spesso possono proteggerci, prima ancora che imprigionarci. Così la pazzia del re, fatto un doppio salto carpiato, non può che tornare a sprofondare in quella notte dei cervelli, dove è inevitabile che ripari: perché questa, in fondo, è la sua natura…
Tutti lo temono, quest’uomo imbizzarrito che, in conseguenza a una caduta da cavallo durante un ballo in maschera, si crede Enrico IV, ma che di fatto non si sa chi sia – non è nessuno fuori da quella finzione: non ha neppure un nome proprio. Ha iniziato ad essere il monarca penitente una ventina di anni addietro, quando la giovane amata ha scelto d’impersonare Matilde di Canossa per la sola l’omonimia col personaggio; ed egli tanto ne ha studiato caratteristiche e biografia, da restar intrappolato nell’ossessione. Ce lo spiega il benemerito Professore/Davide Lorenza Palla – convincente e godibile nel suo ruolo dal gusto istrionico: quasi a castigare la categoria dei cerusici -, chiamato nel tentativo di sbloccare la situazione. Presenti pure Matilde/Sonia Bulgarello, ad impersonar la suocera, anche se in realtà è lei l’amata di un tempo, Tito/Giancarlo Latina, suo sposo ed antico rivale in amore di Enrico IV, oltre a Nolli/Daniele Nutolo, nipote ereditario della gestione del pazzo, che spera di far rinsavire con altrettanto inganno.
Quel che si escogita è un tranello: la giovane figlia di Matilde -ancora la Bulgarello – impersonerà la madre da giovane, nella speranza che lo shock faccia rinsavire il matto. La verità però è che negli ultimi anni il re fingeva la sua pazzia e la visione della fanciulla, al contrario, lo sprofonderà in un cieco furore.
Quel che c’è di precipuo, in quest’allestimento sono alcune idee vincenti. L’utilizzo delle maschere, anzitutto, dietro cui nascondere quella falsa corte di buffoni spaventati – come li taccia il sovrano nei momenti d’ira –, le cui fattezze fisse e stereotipate diventano stigma della falsità delle convenzioni sociali. Si gingillano, nei loro abiti, ed ancor più in quelli con cui ulteriormente si ricoprono, all’apparir del sire: quasi degli uccellacci – questa l’immagine restituita dai abiti di scena – starnazzanti il loro grottesco inutile vivere. Forse i fantasmi che popolano gl’ incubi del sovrano – e che affiorano da dietro i quadri -; ma più verosimilmente il patetico teatrino a cui capriccioso attende il reuccio: spiandolo, da dietro i finestroni, con la sua lampa in mano, piuttosto che dal seggio, dove ci appare ora quasi cartoon – poco ci manca di vederlo infilarsi il dito in bocca, nella sovrapposizione fantastica col felino re del disnayano “Robin Hood” -, ora socratico, in quel movimento d’abbandono nella trasfigurante luce bianca dell’occhio di bue perpendicolare.
E’ contro di loro che inveisce Enrico IV: ché la vera vita gli sembra essere quella pur falsa gabbia temporale in cui si è – poi scopriremo – imprigionato, dall’alto della quale esercita potere assoluto di parola – questa, la speciale felicità dei pazzi – al cui rintocco far ballare gli altri – bella la scena, quasi alla fine, di Enrico che mette in posa da burattini i servitori –, sbugiardandone la pretesa normalità. Impossibile, poi, non notare le gigantografie dei ritratti dei due protagonisti ai lati estremi della ribalta – come non pensare a Dorian Gray: specie alle parole di Enrico: “Non si può avere per sempre 26 anni…”? -: belli nella loro serenità apollinea… e poi replicati – ma stavolta nella dionisiaca smorfia del tradimento svelato – a centro palco. Altro elemento fondamentale è la luce: quella crepuscolare, che solo a tratti si accende nel fuxia scarlatto dell’esaltazione o in fari bianchissimi ad accecare, sublimando. Ma luce – quanto di Diogene c’è, in quel vagare di Enrico IV con la sua lampa pronta alla mano… – è anche la sua assenza – non a caso la notte è senza luna, quando il dramma si compie – ed il suo canto – come nell’invocazione alla luna di Enrico IV…
Ma quel che davvero chiude il cerchio – portando a compimento la rilettura drammaturgica – è la scena finale: non l’assassinio del rivale fedifrago per stoccata, bensì lo smascheramento che ne rivela il volto. E questa verità è così terribile, da non lasciar scampo: così, al velo di Maya tracciato corrisponde il movimento uguale e contrario del sipario che repentino si chiude: intrappolando Enrico IV senza più vie di fuga dall’abisso della follia.