Quando è Cenerentola a esibir(si) in un Peep Show
Torna, fra gli ospiti dell’ormai venticinquennale rassegna estiva “Da vicino Nessuno è Normale”, l’immancabile appuntamento con la compagnia bolzanina Teatro La Ribalta. Torna in quest’ irrinunciabile festival dall’indomita vocazione per un teatro spesso fisico e ricco di senso, oltre che di bellezza, precisione, vocazione, talento, lavoro – duro, durissimo, a volte, ma sempre nel segno del rispetto, della necessità e urgenza del fatto teatrale con tutta la sua portata sociale e aggregativa.
Torna, in un panorama spesso viziato dal talent equivoco, che facilmente indurrebbe a credere al preteso primato della pura predisposizione. Ciò che incontriamo qui è esattamente il contrario: non la spettacolarizzazione di una macchina creata ad hoc per sostenere la drammaturgia di una pedagogia da show business, ma ore di lavoro serio, reale, puntuale e rigoroso su corpi dalla fisicità di-versa – al punto da riuscire a fare di Teatro La Ribalta la prima compagnia professionista di attori (non solo) dis-abili.
Da questi spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini sono passati i nomi più rappresentativi del teatro indipendente
Da Danio Manfredini, a Societas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe, Angelo Mai, Mario Perrotta, Fanny & Alexander… da Sosta Palmizi, a Mimmo Sorrentino, Cesar Brie, Abbondanza/Bertoni, Sotterraneo, Cuocolo-Bosetti, Balletto Civile… fino ad Antonio Latella, solo per citarne alcuni.
E proprio qui, in doppia replica, fra il 13 e il 17 giugno 2021, quel “Un Peep Show per Cenerentola” di Teatro La Ribalta, che sembra far cortocircuitare tutto questo, inverandolo.
Genesi del progetto
Il movente originario, per Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt, era l’urgenza d’inventarsi, già nel primissimo lockdown, un modo per poter tornare a teatro al più presto, ma nel rispetto dei protocolli per il distanziamento e messa in sicurezza del pubblico. E quale modo migliore di un peep show, scevro, in principio, da connotazioni erotiche, ma semplice dispositivo per guardare attraverso un foro o una lente d’ingrandimento?
Sarebbe stato fin troppo facile usarlo unicamente come più o meno goliardico “presidio socio sanitario”… Quello che invece fa, l’acutissima drammaturgia di Paola Guerra e Antonio Viganò, è trasformarlo da pre-testo a ipertesto.
Così, il loro peep show è per Cenerentola ovvero solo apparentemente si ammanta del vessillo della denuncia/salvaguardia della figura femminile strumentalizzata e indifesa; di fatto, scava nel profondo delle contraddizioni di una cultura/minotauro, che esige il pegno di angelicate vittime sacrificali, mettendone a nudo le ben più complesse trine.
“Venghino, siori, venghino!”
Come già in “Otello Circus”, anche qui la metafora è quella dell’imbonimento.
Ad accoglierci, un magnetico Paolo Grossi in rollerblade e, dalle dita accorte di Rocco Ventura, il saltellante snocciolìo della disneyana “I sogni son desideri… di felicità”.
Avevano già vinto loro. Straniante, l’ossimoro fra la tetra austerità delle pareti dell’ex cucina di quella che un tempo è stata una struttura psichiatrica e il tepore della lusinga sottile, che ronza, ugualmente leggera, nelle orecchie e nei cuori di noi tutti. Avevano già vinto loro, ancor prima di illustrarci la drammaturgia della serata e accompagnarci ai séparés, da cui ciascuno avrebbe potuto spiare quel che si agitava nell’inarrestabile pista rotante al centro dei nostri sguardi e desideri.
Il peep show delle sorellastre
Così schermati – e chissà se poi protetti o, per altro verso, invece esposti, a nostra volta, in dorate gabbie di visionari: guardati, mentre guardano… -. eccoci come di fronte a un sogno. Trine e crinoline, corsetti, volants, immacolati virginei vaporosi veli nuziali: questa, la dote e l’armamentario delle sorellastre in cerca di marito; ma poi anche sbrechi rosso vermiglio, ad alludere all’anima femmina, dietro al candore della bambolina – e l’ancor più scarlatta scarpetta, che, mentre dice brama, grida denuncia e stigma.
La drammaturgia del peep skow
La drammaturgia è la parodia di un trasfigurato e fiabesco Non è la Rai.
Quattro pulzelle dagli evocativi nomi di Stella (Maria Magdolna Johannes), Gioia (Stefania Mazzilli Muratori), Letizia (Sara Menestrina) e Feliticy (Mirenia Lonardi) a contendersi il consenso degli astanti nella trepida attesa che fra loro si manifesti l’agognato Principe Azzurro…
Frattanto, però, sono schiave volontarie – altro folgorante cortocircuito – di un Minotauro possente e taciturno come solo l’uomo che non deve chiedere mai può essere.
Si sfidano a due a due, queste Anastasia e Genoveffa. Vengono alle mani, come nell’impeccabile pezzo di teatro danza di Stella (Maria Magdolna Johannes) e Gioia (Stefania Mazzilli Muratori), o sfoderano le proprie multiformi doti. C’è chi la butta sul pietistico – raggela, la voce dalla regia, che, al toccante scoramento di Stella, che non si vede abbastanza bella per poter competere, tuona un: “Patetico…”, che intimamente scuote l’adolescente insicura ancora nascosta in ciascuno di noi. C’è chi si fa come tu mi vuoi – impressionante il lavoro fisico, che permette a Gioia di assumere e tenere la solida fissità della bambola, quasi davvero non fosse, come noi tutti, di carne ed ossa e fatica, tremore e sforzo… C’è chi come Letizia s’innalza sul piedistallo di uno specchio, forzando la propria bellezza verso qualcosa, che finisce con paralizzare, anziché attirare e chi non rinuncia ai mezzi sottili della seduzione erotica. Quanta libertà, consapevolezza, gioiosa spregiudicatezza e lavoro su di sé occorrono – vien spontaneo chiederselo – per un tal gesto attorale, tanto più se giovani e con fragilità psico-fisiche?
In fondo è questo, quel che colpisce del lavoro di Viganò sui suoi attori-danzatori: il rigore, la richiesta scevra da pietismo e la capacità di portare in scena professionisti, prima di tutto, che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi normodotati – che poi, in quest’occasione soprattutto val la pena ricordarlo, davvero Da vicino nessuno è normale.
Guardare oltre le pieghe
E, intanto, la drammaturgia c’invita a guardare dentro alle pieghe – questo, uno dei moniti iniziali della voce fuori campo. E se, fra le pieghe dei vaporosi abiti da sposa, in principio, si celano le quattro fanciulle, ben altro si nasconde fra le pieghe dello spettacolo.
Non è solo la “suggestione, che porta ai temi del desiderio, dell’apparire e della bellezza” come espressamente dichiarato dalle note di regia. Sotto a questo primo livello semantico, si annida una caleidoscopica vertigine di altri significati. È lo sberleffo al tanto agognato Amore – istrionicamente incensato, con tanto di turibolo, dall’accattivante putto/chierichetto Michael Untertrifaller… salvo poi svelarne, in una risata cristallina, ma dalla potenza primigenia, la natura vana e fumosa. È la scarpetta rosso scarlatto, che non può iconograficamente non richiamare la campagna contro la violenza di genere; sì, ma poi si carica di un significato più completo nel declinare il genere anche in direzioni altre e non necessariamente legate alla solo identità sessuale. E poi il tema della violenza – imposta, ma anche auto imposta, come testimoniato dal piedino dell’insospettabile Cenerentola, nell’inarrivabile sforzo di adeguarci a paradigmi e aspettative sociali che pur ci eccedono – e della prevaricazione.
Chi decreta cosa e il ruolo del Minotauro
Il gioco è sempre quello: arrogarsi l’insindacabile diritto di decidere a chi concedere quegli stessi diritti, che in modo altrettanto arbitrario ad altri si negano. La differenza la fa l’esser identificati come Principe o Demone: lo mostra bene l’Angelo Nero (Jason De Majo), punito, con l’offesa della mano, per la sola ragione di non essere “convenzionalmente autorizzato” a trasgredire il veto del noli me tangere. Toccante, in tal senso, anche il delicato passaggio della scoperta e negazione/punizione, per il Gran Cerimoniere (Rocco Ventura) di quello stesso desiderio per suscitare il quale, in fondo, è allestito l’intero il peep show. “Eh, anche la diversità ha i suoi desideri…”, del resto, aveva esordito la voce fuori campo, all’inizio della performance vedo/non vedo di Felicity – alludendo forse ad uno degli ultimi tabù.
Chi è Cenerentola?
In fondo è questa, la vera magia del Teatro: fornire una lente d’ingrandimento attraverso cui dar vita, fra il serio e il faceto, ed emozionale tridimensionalità a certe riflessioni, in cui i nostri pensieri comunemente inciampano.
E rotolerebbero via…
E invece esiste un Teatro capace di fissarli e tradurli in azioni e condivise emozioni, sogni, poesia – urgente, necessaria, creata e non semplicemente scimmiottata – pensati, voluti e studiati. E assunti su di sé attraverso la rigorosa disciplina di un lavoro, anche fisico, capace di piegare la macchina fino a trasfigurarla in uno straordinario gradiente di libertà. Così Cenerentola sono sì gli attori-danzatori del Teatro della Ribalta, ma, non di meno, lo siano tutti noi: ugualmente fragili di fronte alla spiazzante forza e disarmante poesia, di cui, senza retorica, ci parlano i loro corpi nel visionario liberatorio progetto di Antonio Viganò.