Quando il teatro svela i palazzi storici della tua città
Ci sono molti modi di fare e d’intendere il teatro: classico, di ricerca, drammatico, d’avanguardia, performativo, di parola, d’intrattenimento, di narrazione, di denuncia…
Fra i tanti, c’è anche quello scelto da La Bilancia Produzioni/Teatro Martinitt, che, in collaborazione con Archivio di Stato e Fondazione Cariplo, col contributo della Regione Lombardia affida a Roberto Marafante stesura e direzione di uno spettacolo itinerante all’interno dello storico Palazzo del Senato, a Milano, nell’omonima via.
Nasce così, all’interno del progetto “Passaggi Segreti”, “Milano Svelata”, in scena dal 27 giugno al 14 luglio 2019 (non tutte le sere) ad accompagnare il pubblico in un viaggio nel tempo. Si comincia dal 1600, raccontando la prima destinazione d’uso dello splendido edificio barocco – collegio seminariale a forgiare intelletti e vocazioni, baluardo contro protestantesimo ed eresie –, per proseguire in una rievocazione storica degli eventi salienti e delle più eminenti figure rappresentative della storia meneghina. L’arrivo degli Austriaci, poi dei Francesi, Napoleone e poi di nuovo gli Austriaci… fino alle Cinque Giornate di Milano nel 1848, avvenimento a partire dal quale fu coniata l’ancor in uso espressione “fare un 48”…
Gran cerimoniere, il cantastorie Barbapedana ovvero un Tony Rucco mattatore. Ammaliante, giocoso, generoso, dalla voce profonda e graffiante – con quel giusto pizzico di bauscia milanès alla Ugo Conti – è imbonitore quanto basta per innescare l’effetto Hamelin. E tutti noi, il forse troppo nutrito gruppo di spettatori – troppi per una fruizione ideale, specie nelle primissime fasi dello spettacolo -, dietro. Come sorcetti incuriositi o incantati – a ciascuno, poi, il suo grado di emozione e partecipazione – siamo stati lì, a seguire la sua chitarra da menestrello e il suo dialetto autoctono, eppure, ahimè, sconosciuto, ormai, perfino a molti di noi nativi cittadini. Se nell’hinterland, infatti, il dialetto ancora lo si mastica, la metropoli è troppo multi etnica e frettolosa per conservarne la pratica: chissà che non sia, questo, virtuoso tentativo di conservarne quanto meno quella memoria culturale, che passa anche attraverso alla lingua e ai suoi costrutti. Infatti, se il napoletano in qualche modo è da considerarsi a tutti gli effetti una lingua – innalzata a tale rango anche dalla nutrita produzione poetico/letteraria –, non così il milanese. Forse più spesso usato per più pragmatici fini commerciali, l’utilizzo di questo dialetto fu assolutamente in linea con la più schietta e produttiva mentalità del milanese – che, come canta la canzone, sta mai cui man in man e poco si perde nei lirismi e voli pindarici, che diedero maggior diffusione all’altro idioma.
L’inizio è una gag. Uno scorbutico Barbapedana, che, disturbato dal chiacchiericcio della folla, si affaccia alla finestra prospiciente la corte esterna e quasi ci stropiccia – e, qui, si tocca con mano la matrice romana e romanesca del progetto LaBilanciaProduzioni… -: questo, probabilmente il senso, ma il comunque rumoroso traffico, nonostante il tardo orario di un sabato sera di fine giugno, non gli ha certo agevolato il compito. Si comporta esattamente come farebbe il servo fidato, a cose fatte, quando il popolino si accampa a capannelli dietro al portone del potente di turno, perché vuol sapere. Ma il signore è fuggito, la storia già consumata; e, alla fine, lui, fra il serio e il faceto, scende, ci apre la porta e, improvvisato ospite, racconta: “Da qui è passata la Storia…”.
Racconta la Storia, sì, ma anche storie minori, da “La Ninetta del Verzé”, personaggio uscito dalla penna del poeta meneghino Carlo Porta, alla leggenda sulla bestia che avrebbe messo Milano sotto scacco alla fine del ‘700. Meglio: non è direttamente lui a raccontare, ma gli attori che, fattoci fare un tutto sommato inutile quanto evitabile giro alle balaustre del piano superiore in affaccio sul primo cortile interno – in più, ascoltare da lì una vicenda recitata in milanese, con un’acustica non ottimale anche a causa del fatto che gli attori, declamando, non sempre avevano modo di farlo girandosi in tutte le direzioni e, di certo, quasi mai alzando il portato verso l’alto, in direzione del pubblico -, ci riconducono in basso e, alla loro altezza, tracciano la linea della storia.
Già, perché la regia sceglie di utilizzare i binari di pietra, che tagliano, longitudinalmente , i due cortili – un tempo corsia preferenziale per carri e carrozze carichi di merci e notabili -, quale ideale passerella su cui rievocare fatti, personaggi, animi, sentimenti e accadimenti.
Così è tutto un succedersi di figure in attenti costumi storici – di Giusy Nicoletti – in una batteria di attori generosi, ma, a tratti, un po’ di maniera – brava Veronica Franzosi, che brilla in cammei che si alternano alle scene più corali con Ussi Alzati, Ottavio Bordone, Caterina Luciani, Nazzareno Patruno, Emanuele Turetta e Fabio Zulli – in contrappunto al Barbapedana/Tony Rucco. Felice l’idea – forse un po’ didascalica, ma certo efficace – di associare ad ogni sequenza narrativa un ritratto di quelli ipernoti, nell’immaginario condiviso, così da rendere immediata l’identificazione del protagonista di ogni singola scena. Il lasciarli lì a terra, a fine rievocazione, restituisce immediatamente il passare del tempo, caricandolo di un sottilmente subliminale retrogusto dolce-amaro. Poi le luci – scenografiche, di Stefano Valentini, anche se non sempre così efficacemente tarate sull’esigenze di un pubblico itinerante – e quest’incedere di un popolo – di spettatori -, che, sebbene etero diretto, ha lo stesso irresistibile impulso all’avanzata di quello di Felice Da Volpedo completano il quadro di un’esperienza da tarda sera di prim‘estate fra teatro, cultura, storia, rievocazione e riscoperta di un patrimonio artistico spesso non così facilmente accessibile neppure agli stessi cittadini di quel luogo.