Quella stralunata delicatissima dichiarazione d’amore per la vita di Finzi Pasca
Se Compagnia Finzi Pasca vi evoca un circo contemporaneo immaginifico con acrobati straordinari, atmosfere sofisticate e rarefatti scenografici giochi di luce, vale la pena ricordare anche l’altra sua anima. Infatti, accanto a spettacoli come “Donka”, “La Verità” o “Luzia” (per le Cirque du Soleil), esiste una produzione minima, minimale e intimistica. È questo il caso di “Icaro”, andato in scena al Teatro Menotti di Milano dal 18 al 21 gennaio 2024.
Spettacolo per un solo spettatore
A chi frequenta il teatro già da un po’, sarà capitato, prima o poi, di inciampare in spettacoli per un solo spettatore. Più frequentemente in situazioni off o di teatro di ricerca – basti pensare all’ancora in repertorio “Hamlet private” di Scarlattine Teatro o a “Heartbreak Hotel. Appunti per un’installazione” dell’allora Collettivo Snaporaz, visti assieme, anni fa, al Teatro i -, non mancano certo le trovate per cercare di coinvolgere il pubblico in maniera sempre più attiva ed emozionale.
In fondo è esattamente da queste stesse cura ed attenzione che nasce “Icaro”. Non manca di spiegarcelo, l’eccellente gutto-imbonitore Daniele Finzi Pasca, nel lungo monologo, che anticipa, introduce e a suo modo è esso stesso spettacolo.
Sbucando con movenze quasi chapliniane nell’occhio di bue che illumina il pesante sipario color porpora, quest’omino piccolo piccolo – quanto meno: così ce lo restituiscono l’ampiezza del palcoscenico e l’ inusualità della situazione -, in punta di proscenio ci racconta la storia di un sogno nato 34 anni prima dalle menti visionarie di due ragazzi… e andato poi via via limandosi, per potersi adattare ad una reale sostenibilità di circuitazione. Ma lo fa con ironia, lui: con la grazia di chi, nonostante tutto, non ha ancora smesso di credere nella bellezza di quell’idea un po’ balzana e con gli scoppi di entusiasmo di quel fanciullino, che devono un po’ custodire in sé, tutti quelli che fanno teatro – e, ancor più, quelli, che si fregiano dell’arte nobile del mimo e del clown.
Coup de théâtre! Eleggerne uno per ammaliarne cento…
Ed ecco la trovata: scendere in platea, scegliere uno spettatore e chiamarlo ad essere coprotagonista per una sera. Eccolo, il modo per tradurre quell’iniziale idea di far spiare il pubblico attraverso un buco. Che poi cos’altro è, il teatro, se non voyerismo? E, ancora: cos’altro fa, il teatro, se non reggersi sul patto drammaturgico attore/spettatore? E forse non è che è il secondo, quando venga agganciato dall’azione del primo, a dare credibilità all’intera azione drammaturgica?
“L’abc del fare teatro”, si dirà… Qui splendidamente tradotta in azione scenica, accompagnandolo letteralmente per mano, lo spettatore, oramai perfettamente identificato in quello spettatore privilegiato/capro espiatorio del rito teatrale. E l’attore/personaggio non manca di coccolarlo e confortarlo, con tutte le accortezze del caso, ben conscio, pur nel gioco gioco teatrale, della fatica del palcoscenico, specie per chi non sia non avvezzo a calpestarlo.
Clownerie narrativa
Una musica carillon ed una luce blu accompagnano lo schiudersi del sipario… e poi nonostante un’ambientazione, che evoca fin da subito novecenteschi letti di reparti ospedalieri in odor di psichiatria, l’avvio è in perfetto stile clowneristico: frizzi, lazzi, inciampi, incastri e ragionamenti sgangherati. Il pubblico ride, eppure c’è qualcosa che non torna. È solo quando ne ha guadagnato la fiducia – dopo averlo destabilizzato, prima, con quell’inaspettato prologo, e appagato, dopo, con un divertimento basico a portata di bambino -, che, piano piano, il focus si sposta.
Tutto comincia con quel: “Posso farti una confidenza?”. Ed è lì che lo spettacolo svolta.
Il ricordo va all’Augusto, precedente compagno di volo – pindarico, sì, ma anche di evasione. Si tratta di un luogo/non luogo “senza porte, né finestre…”, racconta, eppure, come in un “Sette piani” di Buzzati alla rovescia, si viene spostati da un reparto all’altro, da piano all’altro, e da cui si progetta la fuga, approfittando dell’arrivo – non si sa come – della monaca o del medico, accorsi – non si sa da dove – alle loro urla. Qui il racconto s’illanguidisce, ripensando all’Augusto, per poi farsi scappatoia e progetto, smanioso e immaginifico, pur con tutta l’ingenuità del clown.
Quasi una dichiarazione d’amore
Eppure è proprio da qui che quell‘acrobazia iniziale da fisica si fa drammaturgica e concettuale: condensa in una manciata di parole/figure/immagini chiave, che, come stelle pulsanti, pudiche illuminano il cammino.
Già, perché a chi mastica un po’ di circo, Augusto dice subito quel clown rosso, pasticcione e stralunato, sempiterna spalla di quell’altro, il clown bianco, che l’iconografia tradizionale vuole autoritario e severo – per quanto possa esserlo un buffone. E se qui, pare essere il nostro protagonista ad aver assunto i caratteri del rosso, nonostante l’innegabile pallore del viso, la dice lunga, ripensandoci, la prima azione scenica. Per poter toccare il pavimento, infatti, aveva dovuto prima di tutto recuperare una scarpa: smisuratamente lunga e con la tradizionale punta bombata, probabile eredità – immaginiamo a posteriori – dell’amico Augusto. Ma la sua più preziosa eredità, ci racconta, è quella lezione, capace di mostrare a lui, che aveva i sentimenti spiaccicati per terra, il potere quasi miracoloso dell’essere pitturato. Ce lo racconta così, proprio mentre ripete quel gesto d’investitura simbolica sulla nuova arrivata, a cui confida: “Io generala, io sono una nullità… ma, quando mi pitturo, divento… una bestia! Mi apre i chakra”, ironizza. E, così, a poco a poco, tutto torna.
Siamo nella versione alta di quel: “Ridendo e scherzando, Pulcinella diceva la verità”. Di più: siamo nella sua versione poetica, capace di tramutare l’atto maldestro in elegia, il cunto in fiaba e quel bislacco e improbabile progetto di fuga in una dichiarazione d’amore per quel mestiere – di vita e di palco -, capace, in fondo, metter le ali. Perché quel che c’insegna è che c’è sempre una scappatoia – e che nessuno è mai davvero sconfitto finché abbia un sogno, che gli frulla nel cuore.