Rosario Palazzolo deus ex machina di “Eppideis”
Ci sono topoi, che arrivano direttamente a prescindere dalla generazione di appartenenza. Così, se uno dice: “Coca Cola” o “Babbo Natale”, eccoci tutti lì, davanti al faccione rubicondo di un anziano tanto pacioso, da sembrarne piuttosto la caramellatura, mentre strizza l’occhio alla celeberrima bottiglietta. Lo stesso sitz-im-Leben anche per MacDonald’s, drive in, jukebox, slow, rock and roll o brillantina – che, in slang, fa “Grease”, giust’appunto come il titolo del film… Sono i favolosi anni ’50 – strabiliosi, rubando il lemma proprio alla protagonista di “Eppideis” di Rosario Palazzolo. È il mondo di quegli “Happy days”, che, più che a Beckett, ai più faranno pensare alla sigla del telefilm, che sciorinava a ritmo incalzante i nomi inglesi dei giorni della settimana – illudendo noi, allora bambini, che bastasse ripeterli a menadito per esserne immediatamente risucchiati.
Eccola, l’idea, che sta alla base della drammaturgia di “Eppideis” di Rosario Palazzolo: quasi che la felicità familiare non possa stare che nella giuliva gioiosità dei Cunningam; quasi che quella melassa di ovvietà bidimensionali fosse il solo modo possibile per vivere felici; quasi che il mondo possa essere soltanto quello, che girava attorno al bar di Arnold o al piatto carisma di Fonzie – pollice teso e giubbino in pelle nera, la cui grandeur, alla fine, si esauriva in quel suo simpaticamente scorrect rubare baci a stampo a cheerleaders trasognate…
Eppure nulla di tutto ciò farebbe scandalo, se, a raccontarlo, fossero gli occhioni ingenui di una ragazzina di tredici anni, persi nel sogno del suo primo bacio. Un primo amore ancora solo vagheggiato e rubato al meraviglioso mondo della sottiletta Gioni: sbirciato nelle pose plastiche di qualche fotoromanzo, trepido come quei piedi incontenibili al primo appuntamento e “non ancora bagnato” – così scrive Palazzolo, restituendoci, in una sola espressione, tutta l’intatta delicatezza di quell’età pre adolescenziale. E la protagonista di “Eppideis” si trasforma in un’a suo modo Barbie girl, in the Barbie world con in tesa quel: “Life in plastic, it’s fantastic”, che, di fatto, diventa la scenografia delle sue proiezioni oniriche, alla ricerca di un’autentica edulcorazione della realtà.
Lo aveva già fatto in “Letizia forever”, Palazzolo, di mettere in scena un omone, a cui affidare un ruolo, dichiaratamente stonato, di figura femminile. Lì Salvatore Nocera – con tanto di barbone… -, qui Silvio Laviano – i cui baffi sono ben più di un’ipotetica peluria femminile –, a creare lo stesso cortocircuito: uno stridore perturbante, che scava, istante dopo istante, grazie anche alla grande abilità attoriale di entrambi, credibilissimi in ruoli pur così distanti dalle loro fisicità. E, nonostante tutto il clamore pop, il voluto sovraccarico di rumore, espressività, ritmo, segni, colori, tappeti sonori e musicali, canzoni orecchiabilissime ed arci note (di quelle, che proprio non ce la puoi fare a startene lì, fermo sulla sedia), ciò che ne vien fuori è comunque un “riso amaro” – in direzione ostinata e contraria rispetto alla catarsi. Ed anche questo risponde ad una ben precisa progettualità del drammaturgo: pensarsi come un deus-ex-machina, in rarissimi altri casi altrettanto lucidamente manipolatorio e dichiaratamente farneticante, quanto, appunto, questo Rosario Palazzolo, figlio di una terra di scrittura, che diede i natali ad autori innovativi e destabilizzanti come Pirandello o Scaldati.
Non sono pièce, le sue, ma ordigni di affabulazione. Complici attori di primissimo livello – che evidentemente ha la capacità e il fiuto d’intercettare o, come in questo caso, addirittura di eleggere a fulcro vivo, attorno a cui creare la sua drammaturgia –, imbastisce attorno all’ignaro spettatore impalpabili lacci di zucchero filato. E mentre lo invita a lasciarsi andare in quella lingua d’invenzione, volutamente sgarrupata e infarcita d’improbabili neologismi (a restituir le sonorità del dialetto come da parte di chi non ne conoscesse il corrispettivo in italiano corretto), già prepara l’ennesimo agguato.
E questo fa anche in “Eppideis”, il cui ritmo incalzante e alternato di finzione e realtà, fantasia e verità, buonismo e disincanto – nel triadico implacabile di sferzata/moina-e-affondo… – ci trascina in un turbinio vorticoso, che non può che precipitarci verso la disfatta. Eppure, qui, non c’è nulla della tragedia e della sua potenza quasi salvifica e certo catartica! È come la pistola che c’è, ma che non spara (o, se spara, chissà se e cosa colpisce davvero); così anche le drammaturgie di Palazzolo hanno un loro modo beffardo di rovinarci addosso: scivolante, come un sogno, che all’improvviso volga in incubo, e sinistro, come li cunti dei nostri nonni, che quando meno te lo aspettavi si tingevano di nero. Un ossimoro, quindi (come tutte quelle volte che ridi a crepapelle, ma vorresti solo piangere a dirotto o gridare in modo barbaro e scomposto), una sinestesia (il rosa shokking del dolore più indicibile) quale sola possibilità di ritrovare ancora un contatto, se pur forse non un’autentica salvezza, in quel “teatro, quando ancora raduna i vivi e li nutre”.
Così scriveva la Guarnieri e a questo allude il monologo finale dello stesso drammaturgo in scena: un deus-ex-machina, che interviene a interrompere un finale tanto tragico quanto prevedibile per riportare il senso verso una dimensione altra. Non è (soltanto) la tragedia dell’esistere (peccato, se un appunto va pur mosso all’eccellente spettacolo, che la drammaturgia non sviluppi il movente della scelta della protagonista: fors’è poco sminuire le conclamate cause apparenti virando verso un ineffabile, che non ce ne restituisce le pur opinabili ragioni), né (solo) quella del senso del proprio fare; più visceralmente, il reale sconcerto nasce dalla vanità di quell’imponderabile, che incombendo sulla nostra tenacia, ci travolge contro ogni nostro più strenuo resistere. E chissà che, come in quella domanda al pubblico (“Ma voi siete proprio carne ossa, carne ossa?”), nel racconto del drammaturgo (il suo salire, nonostante tutto, sullo montagna, incurante degli enormi sacrifici e preparato ad accettare gli alterni esisti della scalata) non sia nascosta la domanda sul senso del fare ancora teatro post e nonostante la pandemia.
Visto al Teatro della Contraddizione di Milano; prossimamente in scena, è l’augurio, nei teatri di tutto lo Stivale.