“Scannasurice” di Enzo Moscato come un acchiappasogni di partenopea memoria
“Accussì ca sulu tre cose nun ce so’ rimaste: i ipogei, ‘a memoria e ‘a maggìa”, questo, l’incipit di “Scannasurice” di Enzo Moscato, regia di Carlo Cerciello, in scena al Piccolo Teatro di Milano, per sole poche date, dal 14 al 19 maggio 2019. Continua così, Imma Villa, nei panni di uno Scannasurice dall’impalpabilità quasi lunare: “Ben sapendo ca sulu lòro ci putevano salva’… ca sulu lòro potevano evita’ ‘e tarme, la naftalina o, peggio, di cadere seppelliti in qualche libbro, alla guisa di mummie alisandrine”.
È già tutto qui. Il napulitano eletto a dignità di lingua – una sorta di insperato Esperanto, al punto tale che a nessuno verrebbe mai in mente di sottotitolarne i volteggi, pur non sempre così immediatamente comprensibili a tutti… – e una scenografia alveare, che immediatamente ci riporta a quei vasci “dove il sole del Buon Dio non dà i suoi raggi”, avrebbe cantato De André, pur a proposito dei carrugi, a testimonianza di quanto il nostro Belpaese in fondo sia tessuto di una non dissimile grana. E, della stessa sostanza (dei sogni), del resto, qui, sono il femminiello, protagonista di un delirio tutto suo, e le misteriose figure da lui evocate: topi umanizzati, uomini rattizzati, spettri di umanità così provate, che a fatica li si può ancora chiamare uomini, e pagani spiriti protettori di quelle stesse case, da cui fa capolino la statuina di una Madonnina laica. Quel che ne vien fuori è un immaginario immaginifico alla Basile, sì, eppure non privo di quella cruda prosaicità, ottimamente resa da una scenografia ingombra di calcinacci, detriti, sacchetti dell’immondizia e tutto quel che può meglio raccontare cosa succede quando, alla miseria, si unisce il degrado. È Napoli: con le sue contraddizioni; è Napoli, da poco scossa dal terribile terremoto del 1980, che danni ingenti provocò proprio agli edifici fatiscenti e lesionati dal tempo o alle vecchie abitazioni in tufo.
È in questo luogo surreale, quasi sospeso fuori dal spazio e dallo tempo, che si agita Scannasurice. A sua volta antropomorfica incarnazione di un topo – curioso: in napoletano ratto si dice zoccola e quel che Scannasurice fa, per vivere, è per l’appunto battere i manciapiedi -, passa il tempo sgusciando fra i cunicoli della scenografia, a rincorrere le fantomatiche bestiacce, imprecando contro tutto e contro tutti. Già, perché non ce l’ha solo con gli infestanti sùrici; gli insopportabili roditori, al contrario, diventano emblema e stigma di tutto ciò che è indolente e soverchiante. Ora, sono gli studenti con cui, così parrebbe, divide il fastidio della convivenza; ora, lo stesso popolo napoletano, così avvezzo alle dominazioni, da non aver una bandiera.
Ma Scannasurice non è un vero e proprio misantropo; o forse sì, ma solo nell’accezione socratica. (Nel Fedone, Platone fa dire a Socrate: “La misantropia si sviluppa quando una persona, riposta completa fiducia nei confronti di un altro, che sembri essere di buon animo e veritiero, scopre poi che questa persona in realtà non lo è. Quando questo succede troppo spesso, ecco che essa comincia, inevitabilmente, a odiare tutte le persone e a non fidarsi più di nessuno”). Eccola, la fragilità di Scannasurice, figura dalla luminosità ingenua e surreale, che, con guizzo anti elisabettiano, giustamente Cerciello sceglie di far interpretare ad un’Imma Villa dall’espressività caleidoscopica e multi intenzionale.
Il risultato? Un altro corto circuito: una donna, che gioca ad interpretare un uomo, che fa la donna.
Ed ancora una volta eccola, la Napulè ‘e mille culure. Perché se c’è una cosa, che pare esser certa, a Napoli – leggi: nella cultura partenopea – è che nulla è certo. E così i poveri possono improvvisamente diventar ricchi per il solo immeritato capriccio di una Bella ‘Mbriana o i topi essere bastie infestanti e da scacciare, sì, ma poi anche animali da compagnia così teneramente amati, da volerli con sé in un innaturale suicidio, capace però di superare le distinzioni, contaminando non soltanto le razza, ma addirittura le specie. Questa è Napoli.
E questo è quell’Enzo Moscato, che se, come Pasolini, parla di omosessualità e prostituzione – e dell’ abbruttimento raccontato in “Petrolio” -, lo fa con un tocco capace di travalicare la leggerezza fin irresponsabile dei “Ragazzi di vita”, riconnettendosi, invece, a quel filone onirico, magico e surreale, che da Vetrano-Randisi a Palazzolo, sembra rosseggiare in quel che fu il Regno delle Due Sicilie… Così Imma Villa sembra scomparire e, al suo posto, in scena, ci pare di vedere lo stesso Moscato. Figure diverse, fisicità differenti, eppure entrambe capaci del compito dell’attore: sparire a servizio del personaggio, diventando tutt’uno con quest’essere efebico pur nella fortissima sessualizzazione. Così, dopo averci inondato con profluvi di parole, aneddoti, deliri, provocazioni e gesti – sapientemente amplificati ad accompagnare una lingua non sempre così padroneggiata da tutti -, eccolo finalmente sgattaiolar fuori di casa per la vita notturna. La sua vera vita, forse – o, forse, il solo vero spettacolo che sia in grado d’inscenare.
È una provocazione vivente con quel suo non esser donna eppure offrirsi, da donna, a chiunque si accontenti di un amore fatto alla boia di un Giuda – parafrasando Guccini, sì, ma con quella liricità, che certo “Eskimo” non conosceva… Eppure ancor più provocatorio risulta l’epilogo. Di nuovo in mutande e canottiera, con ancora le luci smorzate del giorno… smessi i panni dello The show must go on, ma con ancora in testa quella retina – come se, chissà, di lì a poco dovesse tornare in scena nel gran teatro del mondo. Così si chiude il cerchio: con una struggente dolcezza tanto inaudita, quanto inevitabile.