“Sotto, sotto…”: la meravigliosa Alice di Bruni/Frongia
“La vita è sogno?” si chiedeva Calderon de la Barca o: “I sogni aiutano a vivere?”, avrebbe chiosato – secoli dopo – un ben noto conduttore televisivo, a notte alta. Poi la satira ne avrebbe fatto un facile cavallo di battaglia; però credo che questa giustapposizione restituisca un po’ tutto il senso dell’ “Alice nel Paese delle Meraviglie”, che Ferdinando Bruni e Francesco Frongia si son cimentati di restituire nella loro “Alice Underground”, fondendola col sequel “ Alice nello specchio”.
Un’ “Alice Underground”, che se rinuncia – nel titolo – alle ‘meraviglie’, è solo per restituirle – amplificate – nella trasposizione scenica: dove la meraviglia, appunto, diventa non solo tonalità emotiva a costante supporto di una fruizione mai annoiata, ma anche fantastica semantica scenica e visiva, oltre che categoria dello spirito. Quasi un codice condiviso, che spontaneamente innesca il transfert del gioco drammaturgico.
Tutto, infatti, inizia da un sogno: quello fatto dalla piccola Alice appisolatasi nella calura estiva, che ci vien introdotto da un coloratissimo volo di farfalle, oniricamente tramutatesi poi in numeri – ricordiamo la duplice vocazione di matematico, oltre che di romanziere, dell’autore. E prende il via il grande gioco – la ‘Grande Magia’, qui è proprio il caso di dirlo – che sarà formalmente sancito nel ‘patto drammaturgico’ finale fra l’unicorno, sconcertato nel vedere una ‘bimba vera in carne ed ossa’, e lei, Alice, a sua volta sbigottita per l’eccezionalità dell’evento: ma che convengono, entrambi, nel voler salvaguardare il sogno e la fantasia – come pure è intento nello scegliere musiche e suggestioni psichedeliche, attingendo alla classicità pop di Beatles, Rolling Stones e Pink Floyd. E per molti aspetti sono proprio gli altre 300 acquerelli, disegnati da Bruni e rielaborati, montati e mescolati con spezzoni di girato da Frongia a fare da protagonisti – fantastica la scena di Alice allo specchio: recitata dalla Russo Arman con una tal precisione di movimento, da far davvero sembrare di essere in una galleria di specchi –: rimpicciolendo, gigantizzando, mostrando il movimento laddove difficilmente si sarebbe riusciti in altro modo – penso alla fissità della corsa sul posto ma entro una cornice in divenire, che fa esclamare alla stessa Alice/Carroll: “Lo chiamano ‘tempo relativo’!”, ironizzando; o al suo ininterminabile precipitare verso il mondo sottostante, la cui durata sarebbe stata inevitabilmente mortificata da un puro movimento scenico reale -; o, ancora, alla sorpresa di veder elementi disegnati che subitaneamente acquistano la consistenza – se non la coerenza – della realtà: la bottiglia con sopra scritto: “Drink me”, che da immagine proiettata, diventa oggetto reale, ma a due sole dimensione: mantenendone, così, la valenza irreale del cartoon.
Toni acquarello, giustamente sognanti ed un po’ naif, che sanno farsi gotici, quando l’intreccio lo richiede – penso alla scena delle porte che Alice si trova a dover aprire o al lungo corridoio, che la conduce al cespuglio di rose bianche ridipinte a mano, per scongiurar l’ira della temibile Regina di Cuori – o fungere da cornice surreale – gli alberi, che spesso calzano stivali: quasi a demonizzare l’immobilità di radici pertinaci – o, ancora, lo stigma di città dai casermoni anonimi e squadrati, che ricordano alcuni disegni dei libri di Rodari.
E a questa ‘meraviglia’ che sa di “Fantasia al Potere” – “…e potere è volere!”, le vien ricordato, da Humpty Dumpty, ribaltando l’ortodosso: “Volere è potere”; riecheggia il kantiano: “Devi, dunque puoi” -, Bruni/Frongia preferiscono ‘underground’, che allude alla caduta al centro della terra/“nella voragine del sé”: canta, frattanto, il Coniglio Bianco; ‘Underground’ che dice di ‘mondi dietro a mondi’: che poi ci si lasci suggestionare dallo Zarathustra o dalla fisica di Pavel, dal viaggio al centro della terra di Jules Verne o dalla logica del sospetto, dal Diavoletto di Maxwell o dall’ homunculus cartesiano, in qualche modo antesignani di Inconscio e Super-Io, poco conta. E’ la stessa struttura stratificata del testo di Carroll, che ci consente di fruirlo a livelli differenti: e così ci sta che, accanto al critico con le sinapsi in visibilio per i continui rimandi, giochi di parole, arguzie al non-sense e ribaltamenti di frasi fatte – col conseguente ribaltamento dei luoghi comuni del pensare -, sieda il bimbo col gli occhi sbarrati per la meraviglia, magari a ricercar sul palco i personaggi già conosciuti nel celeberrimo cartoon disneyano.
E tutto sembra svaporare nel sogno: “Non diverrai più vera piangendo. – le dicono Dimmelo&Dammelo – Tu esisti solo perché qualcuno ti sta sognando e sai cosa succederà quando smetterà di farlo? […] Ti ritroverai nella culla del nulla…”. E tutto sembra acquisire le modalità del viaggio iniziatico verso un’età più adulta: dove altro è diventare più ‘lunghi’, altro è essere più ‘grandi; attraverso prove performanti – c’impiega un po’, ad esempio, Alice, a capire il corretto utilizzo sinergico di ‘drink me’ e ‘eat me’: ma poi ci prova gusto… -, incontri con personaggi bizzarri – ‘matti’, come la Lepre Marzolina o quel Cappellaio Matto, che le rivela che se lei stessa non lo fosse, non potrebbe stare lì fra loro – e disquisizioni sulla semantica delle parole e sul rapporto soggetto-oggetto, rispetto all’attribuzione di significato – e vien in mente la Genesi ed il potere di Adamo di ‘chiamar per nome’ le cose: al punto che la stessa Alice che non lo sa, dove stia andando, ad un certo punto dimentica pure chi sia, quale sia il proprio nome e, con quello, i nomi delle cose… solo la lezione iniziatica del Brucaliffo dispensatore di funghi ‘magici’, le offrirà una chiave di riappropriazione.
Quattro, gli attori in scena – tutti bravi -: Ida Marinelli (lo spazio, il piccione, la duchessa, il ghiro, il due di cuori, la capra dammelo, la regina bianca), Ferdinando Bruni (il tempo, il bruco, il lacchè pesce, la cuoca, il gatto, il cappellaio matto, la regina rossa, il controllore, dimmelo, humpty dumpty, la voce dell’unicorno) e Matteo de Mojana (il coniglio bianco, il lacchè rana, la lepre marzolina, il sette di cuori, l’uomo di carta, il cavaliere bianco, l’unicorno): costantemente impegnati in un turbinio di cambio costumi per poterci restituire quanto più possibile di quella galleria di personaggi simbolici, che animano l’immaginario di Alice; e poi lei, l’incantevole Elena Russo Arman, ad interpretare un’Alice bambina, assolutamente credibile nel suo porsi come candida infanta di sette anni e mezzo: la voce narrante – la sola a sé identica per tutto il tempo, nonostante il frequente cambio di dimensione -: “E’ tutto come un indovinello senza soluzione”, dice, ad un certo punto: e non può non riecheggiare del sitz-im-Leben respirato dal teatro dell’assurdo.
Queste alcune suggestioni da “Alice Underground”: ma, per assaporarne di persona l’incanto c’è tempo fino al 31 dicembre (compreso) al Teatro Elfo Puccini.