“Stanze” piene di… Teatrino Giullare, in ricordo di Giuliano Scabia
Non a caso Milano vien definita Capitale dello Spettacolo dal vivo: a Milano, infatti, pare piaccia parecchio il teatro. Non poteva non essere così, del resto, in una città che, in piena crisi post Seconda Guerra Mondiale ha saputo inventarsi quel “Teatro d’Arte per tutti”, poi trasformatosi nel Piccolo Teatro di Milano, fra le eccellenze italiane.
La virtuosa bulimia teatrale tutta meneghina
Nonostante una cinquantina di sale più o meno grandi, dove si fa teatro in maniera più o meno continuativa e strutturata, la bulimica offerta del teatro milanese trova ancora le risorse per inventarsi rassegne e micro esperienze “clandestine”. L’intento è quello di chiamare a raccolta segmenti di pubblico, che non si sentono forse del tutto rappresentati nelle programmazioni dei teatri ufficiali. Penso a Portiamo il Teatro a casa tua di Mariagrazia Innecco, che, nel giro di pochissimi anni, ha saputo intercettare – dal vivo, prima, per trasformarla poi in una comunità virtuale su scala nazionale, in epoca di pandemia – una frangia di spettatori, che cercavano anche un coinvolgimento aggregativo, a latere del mero fatto artistico. Penso, prima, a Evento Segreto di Alessandro Bizzotto, qualche anno fa attivissimo nel creare eventi artistico-teatrali al buio, dove la pur sempre crescente frangia di afecionados accorreva, sicura che avrebbe vissuto un’esperienza inclusiva e partecipata. E non si contano le altre analoghe esperienze di appartamento. Svariati i vantaggi: dall’offrire date – sia pure secche – agli artisti, al costituire un momento aggregativo ergo facilitatore per il pubblico, richiamato anche dall’idea di un contatto ravvicinato con gli artisti. L’innegabile esito, spesso, è anche lo spontaneo costituirsi di sacche di micro pubblici più facilmente propensi a seguire, poi, i loro beniamini anche in situazioni più ufficiali – con buona pace e indiscusso vantaggio anche dei circuiti teatrali ufficiali.
L’unicum di Stanze
Fra questi, va annoverato l’unicum di Stanze, esperienza di teatro d’appartamento giunta ormai alla sua nona edizione e trasformatasi, nel contempo, in qualcosa di diverso.
Già da qualche anno, infatti, le sue ideatrici, Alberica Archinto e Rossella Tansini, hanno intuito l’importanza di legare i loro eventi alla riscoperta dei tanti luoghi nascosti di Milano, declinando i concetti di arte, bellezza, partecipazione, divulgazione e scoperta in accezioni plurivoche. Proprio in questo progetto di eventi performativi site specific s’iscrive anche “Lettere a un lupo” del poeta Giuliano Scabia recentemente scomparso, portate in scena da Teatrino Giullare, lo scorso lunedì 28 giugno 2021, al Centro Artistico Alik Cavaliere di Milano.
Una performance ricordando Giuliano Scabia
È stato lo stesso Renato Palazzi, critico teatrale de Il Sole 24 Ore, fra l’altro, a introdurre la singolare figura di Scabia, docente – al DAMS di Bologna oltre che pedagogo e formatore e, poi, interlocutore costante della Compagnia in scena – e drammaturgo. Di lui ha ricordato le azioni performative, inclusive della cittadinanza in un abbraccio, che lo ha portato a creare forme nuove e partecipate, negli anni ’70, fino alla creazione di quel Marco Cavallo emblema della rivoluzione di Basaglia. E poi le varie esperienze di teatro popolare, che lo condussero, via via, verso una forma espressiva e, quasi per fatal vocazione, a una poesia in prosa.
Tre pezzi facili
È in questa temperie che va collocato Scabia, lunedì sera portato in scena nell’intimità raccolta di un chiostro nascosto nel cuore del quartiere Sant’Ambrogio, le cui prime luci vespertine non facevano che amplificarne l’effetto poetico. A leggerci quelle lettere – biglietti, per lo più, raccolti direttamente dai rami di un albero, quasi fossero primizie e piccoli frutti preziosi -, Enrico Deotti. La sua pacatezza e il garbo, nella riproposizione di quelle parole, ha avuto il merito di lasciar quasi trasparire lo spirito rasserenante del poeta Scabia, il viso incorniciato da un’aurea di capelli bianchi e il sorriso aperto e disteso di chi ha visto e accolto troppo per poter avere ancora rigurgiti di acredine. In questi divertissements, il gioco della scrittura sembra creare micro narrazioni a un lupo – bonificato, come quello delle favole -, per poi arrivare ad impalpabili affondi sul senso della cattiveria degli uomini e un happy end riscritto – ad usum di un amore troppo sensibile per resistere al finale reale -, che commuove per la sua delicatezza.
E poi la Farsa di Orlando e del suo scudiero Gaìna alla ricerca della porta del Paradiso, pas-de-deux Deotti/dall’Ongaro. Basta ancora una volta un albero ad accogliere la più classica delle pantomime fra un nobil signore e un servo sciocco, chissà poi quanto sia davvero tale e non, invece, solo prosaico e realista. La resa scenica è ottenuta attraverso un gioco di maschere. Sovrapposte e abilmente sfilate, a seconda del personaggio, da sole sorprendentemente riescono, grazie alla maestria prossemica di Enrico Deotti, a restituirci tutta la complessa e sfaccettata moltitudine dei personaggi della Chanson de Roland o della Commedia dell’Arte, in un’autenticità impalpabile eppure disarmante, che si fatica a ritrovare nel teatro contemporaneo da palcoscenico.
L’atmosfera è resa attraverso cose piccole: bastano le note nostalgiche di un minuscolo carillon a manovella o strumenti antichi ed interetnici – come il gong o il güiro – a proiettarci in un’atmosfera sognante eppure popolare con tutto il portato di verità, che questa naturalmente significa, al di là della metafora poetica. E intanto il ritmo è dato dalla lettura cadenzata e incalzante di Giulia dell’Ongaro, intenta a tener il passo come in un redivivo “Tìtyre, tù patulaè recubàns sub tègmine fàgi” dal retrogusto liceale…
Da ultimo, poi, estratti dalla Lettere a Dorothea sopra il Diavolo e il suo Angelo. Ancora una volta una modalità epistolare – l’interprete, stavolta, è Giulia dall’Ongaro -, per confidar(si) e affidar(si) a un destinatario ideale in quelle riflessioni sul senso del narrare e del camminare, del mentire e dello svelare, della maschera e del teatro – che sembra risuonar del ringraziare desidero di Mariangela Gualtieri per l’antica arte del teatro, quando/ ancora raduna i vivi e li nutre.
Il tremito. Cos’è la poesia?
Ecco. Sicuramente non sarà bastato questo piccolissimo excursus fra i versi in prosa di Giuliano Scabia per poter dire di conoscerne le sfumature e i ritmi, gli umori e le intenzioni, le intuizioni e la temperie… Sì, però, sono proprio queste occasioni piccolissima – nel senso di a perfetta misura d’uomo -, che riescono a riportarci alla poesia, al senso e all’ineludibilità e importanza di domande – inessenziali, forse, ma così tremendamente umane – quali quel Il tremito. Che cos’è la poesia? come il nostro stesso intitolava in un suo lavoro del 2006.