“Tiger Dad”: al-di-là delle trappole teatrali oltre verità, virtualità e menzogna
In scena dal 24 al 27 ottobre 2024, al Teatro della Contraddizione di Milano, “Tiger Dad”, l’ultima creatura di Rosario Palazzolo con, in scena, quel Salvatore Nocera, che gli aficionados non potranno non ricordare nei panni di “Letizia forever”.
Se l’autunno è il tempo del foliage, da molti anni, al Teatro della Contraddizione, l’autunno è anche il tempo prezioso – e non meno evocativo – delle ospitate degli spettacoli di Rosario Palazzolo. Questo piccolo teatro – un po’ defilato (nonostante sia nella centralissima zona di Porta Romana) e letteralmente underground (trovandosi, i suoi spazi, al di sotto del livello di strada) – si propone come un luogo libero e di resistenza artistica. Non segue, infatti, primariamente, le logiche di sostenibilità di mercato; ma, piaccia o non piaccia, è dal 1992 che l’omonima associazione, che lo ha fondato e che ancora ne dirige i passi, riesce a concedersi il lusso di scelte assolutamente singolari, certo, ma d’indubitabile esempio di ciò che solo qui, in città, si può vedere, nonostante gli innumerevoli teatri e spazi dell’affollatissimo panorama meneghino.
Fra gli appuntamenti fissi più iconici e anticonvenzionali (e il nome del Teatro ne è esplicita mission), i lavori di Rosario Palazzolo. Drammaturgo palermitano dalla scrittura volutamente sgarrupata, fatta di cortocircuiti, dialettismi e neologismi dal ritmo martellante e dalla poliedricità strabordante fino alla vertigine, come regista, spesso sceglie di restituirci tutto ciò in spettacoli, che ci accolgono con canzoni pop, sparate a mille e immancabilmente agiti da attori dalla bravura, performatività e generosità liminare all’abnegazione. La sua cifra si è sempre più chirurgicamente affinata nella maestria di raccontarci pagine di cronaca, la cui spesso inaudita ferocia (fisica, talvolta, tal altra più subdola, ma non meno atroce), ci atterra solo alla fine.
Già, perché accolti da quello stroboscopico, spesso, carosello di luci, canzoni, colori (sempre vividi, anche se pochi, scelti ed essenziali), divertiti, talvolta, sulle prime, da quei personaggi immancabilmente, prepotentemente freaks, disorientati, tal altra, dalla loro inemendabile basicità, è
inevitabile non caderci con tutte le scarpe. Ed è proprio lì, che scatta la trappola: il velo di Maia di squarcia e la realtà si palesa per quella che è, al di sotto di quella che sembra.
Basta fare una rapita scorsa dei titoli della sua produzione, per averne conferma: da, in ordine sparso, “Letizia forever” (la barbuta donna in grembiule da casa, pronta a raccontare ancora un pezzo della propria storia, pur di poter ascoltare un’altra canzone degli anni ’80) a “Eppideis” (anche qui, dalla ben intuibile la colonna sonora), passando attraverso il trittico “Santa Samantha Vs – sciagura in tre mosse” (ovvero “Lo zompo”, “Mari/age” e “La veglia”) e fino a quell’ “’A Cirimonia”, dai toni forse un po’ più cupi e grotteschi, ma dal non difforme congegno.
È questa, la vena d’oro del Palazzolo, capace di bamboleggiarci fino a farci scivolare “intorpiditi” in trappole dai meccanismi apparentemente grossolani, ma dagli ingranaggi feroci e infallibili.
Ciò premesso, parrebbe dubbio legittimo chiedersi, di fronte a un nuovo spettacolo: “Mutatis mutandis, certo: ma cos’altro avrà da dirci? Un nuovo racconto, una nuova storia, sì: ma quale, oltre a ciò, il valore aggiunto?” A parte che, già avere la forza, la voglia e il coraggio di condividere ancora un’altra storia, a teatro è un atto di resistenza – ne va di…, avrebbe detto Heidegger (e ben lo sa Palazzolo, che, oltre che scrittore, attore e regista, è pure dottore in filosofia). Oltre a ciò, ogni sua nuova storia sembra essere non soltanto l’ennesimo pretesto per affondare l’affilatissimo stiletto nel fianco della falsità sociale, ma, ogni volta, per farlo in modo sempre più agile eppure mortale.
Già, perché è un teatro, che parla di verità e menzogna, il suo. Figlio della terra, che diede i natali a Pirandello ed erede di una filosofia, che per millenni si è affannata attorno a questo dilemma – frequentatore, chissà, quanto meno nella possessione della scrittura, di strane creature, per le quali quel binomio più spesso si (con)fonde in un’endiadi -, finalmente qui Palazzolo toglie la maschera. Lo fa attraverso questo nuovo parto: “Tiger Dad”. Sotto la sua mannaia, ancora una volta cadono i poteri. Quei loro qui diventano lo Sherlock Holmes, stigma sotto cui si annida una spietata satira al drammaturgo stesso e ai meccanismi inevitabilmente mistificanti e manipolatori della drammaturgia. Non si placa la denuncia al potere politico e civile, che ingabbia e aizza la gente, né a quello religioso, che, come nella Trilogia, crea e manipola mostri. In più, qui, la ferocia di quel Tiger Dad, diagnosticato mezzo scemo – ovvero con un ritardo mentale lieve – si rivela un formidabile volano per aggredire il nuovo inarrestabile, inestirpabile e traversale potere del terzo millennio. È la Rete, con le sue sirene tanto lusinghiere, quanto inafferrabili, eppure capaci di spingerci verso le azioni e ostensioni più becere, in nome di un’insaziabile quanto inutile visibilità.
Così copione già visto, apparentemente: canzoni dei cartoni animati, qui, a gogò ad accompagnare la biografia dell’Uomo Mascherato, che ci si racconta, a debita distanza, intrappolato in un perimetro, dal quale gli è vietato uscire. Piano piano, scolora nella biografia di Cabriello-con-la-C.
Un’infanzia difficile, come chi conosce Palazzolo, fin da subito non fatica ad immaginare, ma con una dovizia di indizi strutturali, rivelati dal protagonista stesso.
“Raccontare il perché e il per come, per poter cantare la canzone: e poi morire”. Questo, è l’impietoso mandato delle solite entità fuori scena – qui, straordinariamente precise nella consegna, fatta di decaloghi e regole, che non potevano non sconfinare in quell’altro Decalogo. Ed è così, che assistiamo allo sciorinare di quell’infanzia non felice (“La Felicità è qualcosa che si perde, non che si conquista”, aveva premesso), ma “prima, quando ancora avrebbe potuto esserlo”. Ci si presenta così, quest’improbabile Cabriello/Uomo Tigre: con tanto di barbone e lunga chioma brizzolata, trattenuti in trecce da vezzosi nastrini colorati – come i campanellini sulle stringhe, a ingentilirne i passi goffi, sconnessi e trattenuti. Una bestia – apparentemente inoffensiva, eppur rinchiusa.
E mentre la lingua – preziosa, nelle sue sgrammaticate acrobazie di senso puntualmente plananti in accostamenti tanto “sbagliati”, quanto illuminanti – si reinventa in un gramelot tutto suo, sempre più prende corpo, l’inspiegabile eco del verso di De André: “Fu un sogno, fu un sogno, ma non durò poco…”. Fino alla fine… fino non soltanto allo svelamento, ma alla rivelazione della modalità stessa della trappola…. fino a ché non solo, come nelle altre drammaturgie di Palazzolo, chi ci si mostra si rivela altro da quel che appare, ma addirittura, qui, lo smascheramento arriva a un gioco meta teatrale contemporaneo, per cui drammaturgo e attore transustanziano al punto che, con abile, inaspettata piroetta, superano anche la verità, per risolversi nella liquidità di un virtuale, quasi più graffiante della realtà.
Cosa resta ancora da aggiungere, di fronte a un meccanismo così, a una tal intelligenza critica, padronanza linguistica liberata e immaginifica, a una simile abilità e lungimirante lucidità?
Di certo l’enorme, splendida, costante, fortunatissima intuizione nello scegliere attori straordinari, la cui presenza scenica certo vale la metà del risultato.