Totò, la sua radiolina e la struggente forza del sapersi amati
Colpisce, “Totò e la sua radiolina”, scritto e diretto da Giada Baiamonte, in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano, dal 21 al 25 maggi, a inaugurare l’edizione 2023/24 della rassegna Nuove Storie.
Colpisce per la sua cifra quasi naive nel raccontare una vicenda a suo modo tenera e delicata, che pur non lesina di lasciar trasparire le eco di un mondo duro e respingente, incapace di fare sconti o di impietosirsi di fronte alle umane fragilità.
“Fammi entrare nel tuo mondo […]”
Già all’arrivo, colpisce la scenografia – a vista, entrando in platea. Regola non scritta insegna che non potrà essere che un buono spettacolo, quello, che si dispone ad apparecchiare con tanta cura il nido, entro cui far schiudere la propria trama. In questa ideazione di Danilo Zisa, elementi realistici sorprendentemente convivono con elementi disegnati. Se realistica è la panchina fronte molo con sopra inciso quell’EMMIA (modo teneramente ingenuo, con cui ‘u scemu ne rivendica il diritto di proprietà), disegnate sono, invece, le nuvole, dal tratto infantile, e le barche, che se anche annacano, attraccate al molo, sono fatte di fogli di giornale. E, questo, cortocircuita e ci proietta subito, e in maniera eccellente, in una dimensione, che del reale convenzionalizzato ha solo la cornice – chissà, forse a suggerirci che un altro modo è possibile, oltre che, di certo, consentendoci di entrare nel mondo di Totò ‘u scemu, adulto, ormai, ma dall’indole rimasta bambina.
“[…] nel tuo mondo di frutta candita di disegni colorati e matita”
Colpisce, poi, la trina di elementi infantili, disseminati come i sassolini di Hansel e Gretel sulla via per tornare a casa. Alcuni solo citati o non tangibili – come il palloncino rosso, simbolo di quel che non si ha potuto avere e, per ciò stesso, elemento fondante del proprio essere, o la ninna nanna splendidamente interpretata in scena a voce sola dalla protagonista femminile. Altri assurgono quasi a titolo di comprimari – come le caramelle, che il diabetico Totò non può mangiare, ma che non scorda di portare sempre con sé, perché, come le persone, sono di tante forme e colori, anche se dolci e zuccherate e poi perché piacciono a tutti e questo gli fa sperare che, offrendole, anche risulterà gradito. Tutti si svelano essere appuntamenti mai mancati, capaci di rivelare, ogni volta, un altro piano del racconto – regalando, ogni volta, una nuova sfumatura emotiva, oltre che di riflessione e senso, alla narrazione.
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia […] Sii Gentile”
(Platone, dal foglio di sala)
La vicenda racconta dell’improbabile incontro fra la prostituta Gisella e Totò, ‘u scemu, un giorno, al molo, dove lei va, dopo il lavoro, per rilassarsi, e dove si reca anche lui, quotidianamente, per affidare al mare i suoi pensieri bambini. A loro modo, sono due diversi, che più antitetici di così non avrebbero potuto essere: apparentemente spregiudicata, lei, col suo beffardo bagaglio di vita vissuta, timido e riservato, lui, piegato da un padre padrone alcolizzato, che non gli lesina urla e percosse e nemmeno l’umiliazione di dirgli, che non sa che farsene, di un figlio disabile e che lo avrebbe certo ammazzato in culla, se non fosse stato per l’oramai defunta madre, che lo ha sempre difeso come il pescespada difende la sua innamorata.
“E fu sera e fu mattina”, verrebbe da chiosare. Già, perché, attraverso l’alternanza di quadri e bui, assistiamo al farsi sguardo di questi due e curiosità e conoscenza e riconoscenza, fino a trasformare il riconoscimento in accettazione, legittimazione reciproca, amicizia e affetto verso un a suo modo lieto fine, nonostante tutto.
“Essere amati profondamente da qualcuno ci rende forti […]”
Torna in mente lo shakespeariano: “ti amai per le tue sventure e tu mi amasti per la mia pietà”, in questo spontaneo processo di avvicinamento e crescita reciproci. In sotto traccia, la loro quasi inintenzionale ostinazione nel non voler cedere alla ferocia del mondo: né arrendersi, ma neppure arrendervisi, rinunciando a perseguire il proprio differente sguardo sul mondo. Sembra quasi che questa loro improbabile scombinata amicizia, fornisca, all’uno e all’altra, la forza, finalmente, per verbalizzare il loro disagio – e, una volta detto, non ci si può più nascondere.
“[…] amare profondamente ci rende coraggiosi”
Se ci si aspetta un lieto fine, questo in effetti c’è, ma a suo modo. Intelligente, la scrittura, che non cede a stucchevoli happy end da feuilletton, né retrocede di fronte a boutades al limite del politically correct (che pur porge nella più garbata delle maniere). Neppure mancano le allusioni realisticamente in linea con l’ambiente socio culturale, di cui racconta – che non manca di rivelarsi, però, paradigma universalizzante, in cui poterci proiettare, a prescindere. In questo senso, felicissima, la scelta e la naturalezza di quel parlato siciliano stretto, offerto al pubblico meneghino senza remora alcuna, ma con la sicurezza di chi sappia il fatto suo – e che quella sonorità non potrà che aggiungere verità e colore alle cose.
Chicca assoluta, poi, sono i due interpreti in scena, Eletta Del Castillo e Nicolò Prestigiacomo. Strabiliante, lui, nella prossemica dell’ ‘u scemu, non meglio identificata tipologia di disabile, a cui Prestigiacomo offre un corpo storpio e un eloquio gutturale e strascinato, spiazzante cassa di risonanza di quei pensieri un po’ bambini, ma dalla saggezza disarmante della felliniana Gelsomina o dell’omonimo Totò di “Miracolo a Milano”. E non è da meno la Del Castillo, generosa spalla di un personaggio così poetico, da non poter non catalizzare la scena: si offre al suo ruolo dalle mille sfumature, umori, passioni e sentimenti viscerali e contrastanti, fino all’accettazione composta, per amor di amicizia di Totò. Uno spettacolo, da cui ci si accomiata come da una tragedia antica: alleggeriti, dopo la catarsi, ma con, in più, la carezza costante e quel tocco di lievità e delicatezza, che ci piace pensare possa essere cifra di una scrittura femminile.