“Trainspotting” fra sinestesia e destrutturazione: l’occhio asettico della telecamera
Prodotto dallo stesso Teatro Menotti di Milano, che lo propone in stagione dal 3 all’ 8 dicembre 2019, il “Trainspotting” di Sandro Mabellini è un riadattamento teatrale dell’omonimo romanzo generazionale di Irvine Welsh – per l’occasione tradotto dal drammaturgo Emanuele Aldrovandi. Pubblicato nel 1993 e trasposto su pellicola, tre anni più tardi, sotto la direzione di Danny Boyle, racconta le grottesche vicissitudini di un gruppo di giovani eroinomani, sbandati e rinunciatari.
A questo, infatti, allude il titolo, la cui traduzione suonerebbe più o meno come: “Guardando i treni passare”.
Il riferimento è a quella gioventù, a suo modo bruciata, che reagisce in maniera autodistruttiva nella fisiologica opposizione adolescenziale ai modelli imposti. Ne abbiamo innumerevoli ed eccellenti precedenti, specie nella letteratura anglo americana, ma anche in europea e mitteleuropea. Ogni volta col maledetto colore della fata verde del momento; ogni volta pensando che la propria scelta suicida di buttarsi via o di scegliere di non scegliere sia il modo più sovversivo per scardinare il sistema.
“Uccidi il padre!” è il silente monito che, dalla mitologia greca alla psicanalisi freudiana, serpeggia nell’adolescente in cerca di auto legittimazione. “Ma attento a non uccidere te…”, verrebbe da chiosare dall’alto di innumerevoli esempi di generazioni stritolate nell’impari corpo a corpo, come se non ci fosse altra alternativa, oltre alla reazione modernista di un superomismo delirante o della sua evoluzione rampastista, che il solo “Muoia Sansone, con tutti i filistei!”.
Adattarsi o soccombere: non è questa, del resto, la dura lex sed lex vigente anche in natura?
Così, a ben vedere, un altro nulla di nuovo sotto il sole, quanto alla pulsione propulsiva.
Quello che cambia, invece, è la tonalità, che pervade questo specifico atto in fondo di rivolta. Il demone, qui, è quello della droga: dell’eroina, per lo più, con tutto il suo squallido indotto.
Quante pagine scritte e quanti chilometri di pellicole cinematografiche su quel sesso, droga – and rock’n’roll, nella migliore delle ipotesi -, a raccontarci di intere generazioni di giovanissimi, folgorate, a partire dagli anni ’50, da un sogno rivelatosi poi il peggiore degli incubi.
Ma questo lo si scopre solo vivendo, direbbe Lucio Battisti di poco antecedente a quella fine anni ’80, in cui anche Mabellini colloca il suo “Trainspotting”.
Tutto ci parla di una prova che sta per compiersi.
Come a un provino, in uno spogliatoio poco prima della gara o nell’anticamera di un colloquio di lavoro – questo, appunto, anche uno degli episodi raccontati -, gli attori ci attendono in scena già schierati su sedie contigue. Se ne stanno lì, sul fondo, in buon ordine, seminudi e quindi pronti a indossare i panni di qualsiasi dei personaggi.
Fedele nella collocazione storica e geografica – affidata alle sole parole dei protagonisti -, Sandro Mabellini sceglie però di destrutturarne le vicende, esplodendole in un iper spazio scenico imploso, in cui, a dominare è il vuoto, metafora delle loro esistenze. Fedeli sono anche la scelta linguistica – un turpiloquio pressoché costante ed evocativo di immagini disgustose e intenzionalmente disturbanti, come da testo originale – e il registro grottesco, che appiattisce la psicologia dei personaggi per raccontare con attraverso uno sguardo cinematografico e più neutro possibile.
Un lavoro di destrutturazione.
Scomposte sono le scene come scomposti erano anche gli allucinati episodi del film, il cui intento frammentario qui viene acuito dallo scorrere di numeri sullo schermo – un pc portatile, forse un po’ troppo piccolo per uno spazio così ampio. Su quello stesso pc passano anche le immagini dei Mondiali o di una psichedelica cover di “Felicità” di Albano e Romina, forse a rendere più vicino e italiota il senso di questa proposta testuale.
Scomposta, ancora, è la distribuzione delle parti. Tranne Michele Di Giacomo – che interpreta Marc, il protagonista e, in qualche modo, perno narrativo -, Marco S. Bellocchio, Riccardo Festa e Valentina Cardinali, soprattutto, recitano una molteplicità di ruoli, che ci consente di apprezzarne la versatilità e bravura. Come un collettivo, poi, a tratti si fanno voce polifona: un coro, che assume di su di sé l’onere dei passaggi narrativi o dei momenti di riflessione.
Interessante il guizzo registico, che affida questi momenti a sinestesici corto circuiti.
In piedi, di fronte ad aste di microfoni come di fronte a un plotone d’esecuzione, gli spersonalizzati protagonisti rimbalzano le loro verità più urgenti e impopolari – l’eroina, la sola cosa che non menta in una vita piccolo borghese fatta di appuntamenti irrinunciabili eppure deludenti. Lo fanno attraverso le voci indifferenziate ora di questo ora di quello degli attori. È come un’eco rimbalzante, che non ha bisogno di microfoni per essere sostenuta – gli attori, professionisti, evvivadio, non hanno difficoltà alcuna a usare il diaframma, riuscendo a portare la voce all’intera platea – e, così, al posto dei gelati compaiono lampadine. L’effetto sinestesia dice verità, sì, ma dice anche scandaglio e, ancora una volta, funge da elemento disturbante con la sua accecante luminescenza acuita dall’enorme spazio buio come fosse la pancia di una balena.
Trainspotting – Trailervideo: Federica Toci
Pubblicato da Trainspotting – Lo spettacolo su Domenica 10 dicembre 2017
Quindi uno spettacolo ironico, ben congegnato, diretto e interpretato – ciascuno con la propria cifra: dalla nota prepotentemente grottesca e caricaturale di Festa o di Bellocchio a quella dalla sorprendente versatilità della Cardinali, fino alla già in più occasioni apprezzata maestria di Di Giacomo.
Resta solo un dubbio: abbiamo ancora bisogno di sentir parlare di quella stagione, di quel disagio, di quel fallimento generazionale e della conseguente catastrofe sociale – dall’aids, in qua, per capirci – con un linguaggio così disturbante? Passata la stagione calda della denuncia, chissà che non si possa trovare un altro modo…