TRILOGA DELL’INTIMITA’. Di cos’ha bisogno (chi va a) il teatro?
È curioso. È curioso andare a teatro per due sere consecutive e ritrovarsi, in entrambi i casi, a sedere, come pubblico, sul palcoscenico.
Curioso è, poi, essersi preparati mentalmente ad incontrare autori assolutamente diversi (un grande classico, nel primo caso, come Dostoevskij, e una drammaturga contemporanea, nell’altro, come Valentina Diana, non a caso autrice all’interno di una rassegna dal significativo titolo di “Nuove Storie”) e ritrovarsi di fronte a situazioni dalle curiose eco dialoganti. Già, perché, in ambo i casi, più che accogliere il pubblico sul palcoscenico, l’intento par esser quello di un ribaltamento: sgombrare la platea per mostrare, a chi di solito è da lì che guarda lo spettacolo, il punto di vista di chi normalmente invece è guardato. Di fatto, una richiesta di adesione simbiotica, per non dire mistica, con chi scrive: un atto, che ha più il sapore di quell’intimità, che si crea fra scrittore-e-lettore, che non fra drammaturgo-e-pubblico – inevitabilmente mediato, com’è, di solito, dalla sia pur evanescente interposizione del tertium attorale.
Eppure, sulla carta, due spettacoli quanto mai diversi.
Sono “Il sogno di un uomo ridicolo” di Dostoevskij, traduzione e drammaturgia di Fausto Malcovati e Mario Sala (quest’ultimo pure in scena) e regia di Lorenzo Loris (al Teatro Out Off di Milano, dal 7 maggio al 2 giugno 2019) e “La Nipote di Mubarak” (27-30 maggio, Teatro Elfo Puccini) di Valentina Diana, regia di Vinicio Marchioni e interpretato da Marco Vergani – secondo la stessa formula vincente già apprezzata ne “L’eredità dolcissima di Renato Cane” e del terzo capitolo della Trilogia dell’Essenziale (per fare teatro indipendente), che saranno riproposti in scena in autunno sempre all’Elfo. Se il primo mette in scena tutti i topoi di uno dei più classici autori moderni – efficacissima, magistralmente costruita e ottimamente centellinata, ne è la riscrittura scenica, giocata su parole-chiave di schietto sapore dostoevskijano: ridicolo, pazzo, orgoglio… e poi ancora: consapevolezza, pietà, bambina, amore, bellezza, salvezza, fede -, l’altro argutamente gioca col contemporaneo. Ci sono, in quest’ultimo, tutti i luoghi comuni dell’oggi: precarietà lavorativa e affettivo-relazionale, slang volutamente politically incorrect e quell’ironia, che pare essere conditio sine qua non dell’homo bimillenarius – quasi che una delle più fiere conquiste del XX-XXI secolo sia l’uccisione dell’ipse dixit nel “De risu” a vantaggio del rabellaissiano motto fondante l’homo modernus – “Ridere, soprattutto, è cosa umana”.
Al di là di ciò, le due trame scivolano via in maniera del tutto autonoma; eppure, ancora una volta, segnate da sorprendenti parallelismi. Se è proprio il sogno a portare l’uomo ridicolo ad essere ‘promosso’ a matto – e, questo, ha dostoevskijanamente a che fare con la consapevolezza di sé e dell’altro-da-sé, col nichilismo, la hybris e la pietà, con la testimonianza, la missione, la fede e, in qualche modo, anche con una salvezza che la triangolatura bellezza/apertura/amore, surrettiziamente operata da Malcovati/Sala, sposta dal primo all’ultimo di questi lemmi -, ne “La nipote di Mubarak” lo slittamento si crea già nel titolo. Se l’aspettativa, infatti, è quella di una satira, che vada sarcasticamente in affondo in certe vicende di politica (interna, ma anche estera) o che si sdilinquisca in una sottile fustigazione dei costumi, quel che ci spiazza è l’effetto civetta per il quale ci troviamo catapultati in un assoluto altrove. La cronaca politica e di guerra, qui, si ammanta di quella umanissima pietas, che, di solito, siamo capaci di provare soltanto di fronte a un prossimo realmente tale. Già, perché, se “ci piace l’idea di amare gli uomini – esordisce la voce fuori campo di Francesco, velato, nel suo mascheramento di donna araba, e seduto, lui solo, in vece nostra, in platea – e questo va bene -, rinforza, poi candidamente ammette: “ma non possiamo davvero amare tutti”. E sciorina quel che effettivamente ci accade quando qualcosa di atroce capita a chi ci sia più o meno prossimo. E non è così, in fondo, anche di fronte alla lucida ammissione dell’uomo ridicolo? “(Di me ridevan tutti e sempre. Ma nessuno di loro sapeva, né indovinava che,) se c’era un uomo sulla terra più di tutti consapevole ch’ero ridicolo, quello ero io” al punto che “se per caso mi fossi permesso di fronte a chicchessia di riconoscere che ero ridicolo, mi pare che lì per lì, quella sera stessa, mi sarei fatto saltare le cervella con un colpo di rivoltella.” E sono giusto questi sprazzi d’inaspettata verità – inaspettata, una volta accoccolatici nella propria comfort zone – a cortocircuitare, con suggestioni differenti eppur ugualmente vere.
Ma la verità, in entrambi gli spettacoli – meglio: il profondo livello di coinvolgimento in cui riesce a infiltrarsi – certo è raggiunta anche dalle regie. Due professionisti, Lorenzo Loris e Vinicio Marchioni, del tutto differenti, sia per età che per percorsi professionali e formativi, eppure che sembrano incontrarsi a un appuntamento fissato al di sopra delle loro teste. Entrambi, infatti, non solo spostano lo sguardo del pubblico dal palcoscenico alla platea, ma è proprio in platea che collocano quella confessione, che, a metterla lì, sembra quasi postulare una preterintenzionale assoluzione. E questo, in ambo i casi, è un gioco emotivamente forte, sì, ma proprio per questo, forse, sottilmente manipolatorio.
Oltre all’idea registica, la differenza la fanno gli attori. Con cifre del tutto diverse, eppure con una generosità e maestria – specie nel caso del plus agé Mario Sala – in nulla dissimili, i due attori si offrono in performances in cui si danno senza risparmiarsi. Mario Sala è un idiota a due velocità: in falsetto, gioca il ruolo ebete appiccicatogli addosso dagli altri – e ribadito, con una ridondanza forse superflua, da trucco e abiti dalla suggestione clowneristica -, mentre più cupo si fa – anche nella vocalità oltre che nelle intenzioni – nei passaggi in cui davvero si racconta. Ci vuole una disponibilità e assoluta capacità di affidarsi alla mano registica, a cui del resto Loris è abituato da lunghi sodalizi anche con il non meno istrionico, generosissimo e capace Roberto Trifirò. Marco Vergani, dal canto suo, calca la cifra realistica dell’anti recitazione. Ipnotico, si (ag)gira in mezzo al pubblico, come in un rit(m)o quasi sciamanico. In continue evoluzioni peripatetiche gira attorno ad un simil totem, che ha la struttura stilizzata della tenda Sioux – e che, come un tabernacolo o una moderna e laica arca di una nuova alleanza, custodisce scritture profane e diversamente salvifiche.
Salvezza: è di questo che abbiamo bisogno oggi? E l’accoglienza in un abbraccio ristoratore, che è forse il solo vero significato del termine intimità?
Crollate le chiese, i partiti e le ideologie, uccisi i padri e sconfessate le fedi, resta ancora il bisogno – prepotente! – di un’assoluzione? E, se sì, da chi e perché? Riecheggia forse ancora il monito nietzscheano – “Se Dio è morto, tutto è lecito” –?
E di morte, accoglienza, assoluzione, abbracci – mancati, temuti, avuti, subiti… liberati – parla anche lo struggente spettacolo “Kaddish” – treno funebre, ma di tradizione ebraica – di Allen Ginsberg, regia e video di Francesco Frongia, al Teatro Franco Parenti di Milano dal 16 al 30 maggio 2019. Una quasi lettura: tirata, ipnotica, visionaria, mantrica, emozionale, catartica ed espiativa con un Ferdinando Bruni in stato di grazia, capace di risucchiarci in una giduglia, in cui una cronaca autobiografica dalla prosaicità quasi squallida si sposa con una poesia di scrittura, intenti, emozioni e considerazioni che si fondono nelle sonorità morbide e concitate con cui Bruni ci ammalia. La regia non fa molto di più che fissare questo potentissimo strumento che la voce umana – con la sua capacità di evocare, ammaliare, trasmettere… accompagnare – in una costruzione di schermi – siamo nella cultura della Beat Generation e nella stagione della psichedelia -, che via via abdicano al loro intento di moltiplicazione delle immagini, quasi per lasciar voce a quel solo media che davvero pare ancora in grado di trasmettere, coinvolgere e comunicare. Anche qui intimità è la parole-chiave, anche se, qui, il pubblico siede a “distanza di sicurezza”, protetto dall’oscurità della platea. Anche qui riecheggia la ricerca se non si una salvezza – quella, in fondo, forse l’ha già data la morte, col suo riposo “eterno”, per chi va, ma forse, in qualche modo, anche per chi resta… – , quanto meno di un’assoluzione.