“Ubu Re” di Omar Nedjari, ratatouille in salsa pop e il senso del comico
Come si fa a portare in scena, oggi, una pietra miliare del teatro novecentesco quale “Ubu Roi”? Come si può conservarne tutta la sconvolgente dirompenza in uno scenario culturale tanto diverso e ormai così assuefatto a qualsiasi provocazione, da risultarne quasi immunizzato?
Eppure, in quel lontanissimo debutto parigino del 1896, lo stesso Jarry fu costretto ad inventarsi l’éscamotage di sussurrarlo, il suo discorso introduttivo, per potersi permettere di dire che l’azione si svolgeva in Polonia, cioè da nessuna parte…. E fu clamore. Come clamore fu quel “Merdre!”, intercalare, che ai nostri giorni non farebbe arrossire più neppure un’educanda – ammesso e non concesso che ce ne siano… -, ma che ancora risuona nelle eco ammiccanti dei cultori.
Questione di metodo
Terribile corpo a corpo, con “Ubu Roi”, ad esempio, quello di Stefano Té di Teatro dei Venti di Modena. Nel 2016, ne ha portato in scena una memorabile edizione con attori/detenuti all’interno del suo progetto di Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. Se Té colorava il grottesco con le tinte fosche di un’ascesa irresistibile – alla Arturo Ui –, Omar Nedjari, regista dell’ “Ubu Re”, andato in scena venerdì 30 luglio 2021 nella rassegna estiva del Teatro Menotti, l’ombreggia di pop. E non è una scelta da poco.
“Leggerezza, che non è superficialità…” (Italo Calvino)
Serpeggia ancora un pre-giudizio, nella nostra cultura occidentale, in forza del quale si tendono a scandire l’alto dal basso. Retaggio, forse, della fisica e della gnoseologia aristoteliche, inconsciamente si continua a credere che tutto ciò che è nobile salga (quindi fuoco ed aria, nella distinzione degli elementi, ma anche le sfere più sublimi del sentire e del sapere), mentre ciò che è più crasso e triviale (e cioè acqua e terra e comunque tutto ciò che abbia a che fare col corpo, ivi compresa la conoscenza sensoriale), scenda. Non a caso, le anime dei beati ascendevano ad un Paradiso posto al di sopra delle nuvole. Quelle dei dannati, al contrario, venivano sprofondate negli inferi proprio a causa di vizi capitali spesso legati alla carnalità.
E poi c’era il Carnevale, stra-ordinario gioco d’inversione, in cui, sia pur – e proprio perché – semel in anno, tutto ciò veniva scompaginato. Scardinar le regole e reinventarsene, per un giorno, di nuove: è esattamente qui, che s’insinuava un certo teatro. Qui, nella zona franca fra lecito e illecito, poteva trovar momentanea dimora quell’insanire, a cui era concesso di dire, per un giorno senza censura, come nell’eironeia (finzione, ma anche dissimulazione) del satiro (da cui la satira).
Il senso della scelta pop
Eccolo, il senso della scelta pop. Cifra della compagnia Università degli Studi, Arcus Milano, caratterizza molti lavori diretti da Nedjari, fra cui “Tragici a pezzi” o “Shakespeare a pezzi”, (monologo, quest’ultimo, affidato alla maestria trasformista di Enrico Ballardini, presente pure nel cast di questo “Ubu Re”). Lungi dall’essere mero escamotage acchiappa pubblico, quale modo migliore, infatti, per attualizzare il patafisico, se non ridisegnandolo attraverso le linee crasse del grottesco e le tinte chiozzotte del triviale e dell’esagerato?
È lo spirito del Carnevale, appunto, o della Commedia dell’Arte, invenzione tutta nostrana e che riaffiora, ad esempio, pure nella loro“Fortuna”. Riflessione attorno al gioco d’azzardo, da Goldoni e Dostoevskij, andrà in scena il 30 agosto pv nella rassegna Estate Sforzesca. Fra gli altri, nel cast quel Michele Bottini, docente di Commedia dell’Arte alla Civica Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano, nonché protagonista del “La storia di Qu”, ultimo omaggio del premio Nobel Dario Fo a quella straordinaria stagione teatrale, che volle far rivivere nel suo “Mistero Buffo”.
Tre ordini di scrittura
Il plot racconta di una curiosa crasi fra gli shakespeariani “Macbeth” – ovvero l’epopea del delirio à deux di una coppia distonica nella scalata verso uno scettro tanto inaspettato quanto vaticinato ergo preteso – e “Amleto” – ossia la saga degli esistenziali dubbi di un giovane principe, dilaniato da opposte passioni e pulsioni dissonanti, sulla via alla corona. Nel pot-pourri di Jarry, tutto ciò si trasforma in una sferzante pièce sul potere, sui suoi giochi manipolatori e sull’infingardia dei rapporti su cui si regge.
La riscrittura di Nedjari, poi, li trascolora ulteriormente in una ratatouille graffiante e in salsa pop. Fra un lancio di ortaggi e il morso famelico a un petto di pollo, fra un salame crassamente allusivo e un apparentemente elusivo accenno all’occhio onnipresente e deformante di un’informazione tutt’altro che neutrale, sciorina segni inequivocabili ed equivoci dalla comicità basica e quasi circense. È questo il modo scelto per avvicinare un pubblico quanto più vasto possibile. E poi colori netti e gesti e umori primordiali a far da cornice, lungi da qualsiasi complicanza amletico-psicologica, alla raffica di battute dalla trivialità boccaccesca e ai cortocircuiti folgoranti, in cui l’attualità da tg (di quella storia) si accende, all’improvviso, di stilettate che alludono all’attualità della nostra cronaca.
Resa scenica
A restituire, in scena, tutto questo, Sergio Longo, un divertente padre Ubu dalla rozzezza dichiarata e comicamente imbarazzante, intrappolato ora in abiti così stretti, da lasciano spuntare pancia e calzini scarlatti, ora in quel grembiule da cuoco extra size – con tanto di patafisica giduglia – , da cui straborda tutto il suo carattere di sciocco e ottuso parvenu e Marika Pensa, una godibilissima madre Ubu dai toni funny dark e dall’accattivante accento finto polacco. La loro forza è nell’uso strabordante di una fisicità, che intenzionalmente ostentano, nell’esplicita allusione ad una carnalità, che gioca e con cui giocano nella loro prevedibilmente rovinosa scalata al potere.
Accanto a loro, uno strepitoso Enrico Ballardini, a impersonare capitan Bordure, giovane amante di madre Ubu, ma in realtà figlio patricida di Re Veceslao – e poi nuovo sovrano di Fridonia – e tutta una pletora di personaggi minori, di cui anima la partitura originale. Qui vengono argutamente trasformati in figurine da tg, dando vita a scene dalla tipizzazione demenzial-esilarante grazie alla sua prossemica e mimica sempre attente, curate, divertenti, puntuali e incisive.
Ed è proprio questo, credo, in fondo l’intento: mostrare, fra il serio e il faceto – meglio: fra il faceto e il serio -, quando al fin risibili siano la brama di potere e l’illusione di manipolabilità e, al tempo stesso, ridicolizzare la pseudo oggettività dell’informazione e tutta la retorica della sua narrazione.
(Tragicamente) risibile è il potere e chi lo agita: sembra la morale da arguto exemplum medievale, dove il lieto fine reale sta se non nella salvezza del protagonista, quanto meno nella catarsi liberatoria di una risata alla Rabelais – “Ché ridere soprattutto è cosa umana”.