Un “Festen” pop grottesco e il plauso del pubblico
Finalmente si torna a teatro, in quest’estate meneghina, che sembra non star più nella pelle per il desiderio di tornare ad offrire quanto più possibile al proprio pubblico. E se anche il pubblico, forse ancora un poco timoroso – o forse, invece, come sempre ammaliato dalle altre mille sirene della stagione estiva – non sempre lo ripaga con altrettanta generosità, questo non è certo il caso di “Festen” della compagnia torinese Il Mulino di Amleto.
In scena al Teatro Fontana di Milano dal 18 al 27 giugno 2021, questa co produzione con TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e Solares Fondazione delle Arti, se non cattura tutto il plauso degli addetti ai lavori, ammalia invece il pubblico.
E un pubblico giovane: e, questo, è degno di riflessione…
Operazione “Festen”
La saggezza popolare lo insegna: “Nemo propheta in patria”. Così è evidenza, anche per chi bazzichi le sale teatrali con una costanza tale da farlo diventare quasi un lavoro, che quel che piace al pubblico, raramente aggancia anche gli addetti ai lavori – e, reciprocamente, di ciò di fronte a cui la critica si scioglie in accorati sdilinquimenti, di tutto questo il pubblico medio probabilmente non ha neppure la benché minima cognizione. Caso eclatante, in questo senso, solo qualche anno fa, Carrozzeria Orfeo, che, col suo “Thank you for vaselina”, si spinse fino al punto da ingaggiare una campagna mediatica votata allo sberleffo della critica (benché ormai ridotta a sole poche unità effettive… e una moltitudine di blogger dalla passione, competenze e continuità le più disparate) e inneggiante, invece, al pubblico. A guardar bene: come dar loro torto?
Intanto non c’è teatro se non nello scambio fra chi scientemente si mostri e chi altrettanto intenzionalmente guardi: e da nessuna parte è scritto che, per guardare, occorra avere delle competenze, anzianità di visione o interessi più specifici di quelli di chiunque scelga, anche solo per una sera, di andare a teatro… Perso il ruolo di influencer ante litteram del critico, oggi sposta più pubblico il passaparola di chi riesca a parlarne con trasporto – e, si spera, onestà e autenticità -, che non le tante – o poche, se pensiamo alla carta stampa -, recensioni professionistiche, che il pubblico potrebbe leggere.
Chi olia, in fondo, la macchina dello show business, se non l’appassionato spassionato pubblico pagante?
Così ci sta che alcune compagnie più giovani e smaliziate giochino a portarselo a casa, come si dice.
La parabola pop de Il mulino di Amleto
Esattamente in quest’asse, benché con appiglio certo più garbato e friendly, probabilmente si colloca anche la compagnia Il Mulino di Amleto. Prese le mosse da un’intuizione pop nell’approccio ai classici – basti ricordare il loro godibilissimo “Misantropo” o, prima ancora, “Gli innamorati”, fino al pluripremiato “Platonov” -, si sono poi spostati verso una drammaturgia più contemporanea. Dal “Senza famiglia” di Magdalena Barile fino a questo “Festen”, ambiziosa messa in scena di uno spettacolo teatrale ispirato al film, che, per primo, mise in discussione un certo modo di fare cinema, il trend è quello di uno slittamento: da una freschezza pop a un pop dai toni più calcati e irriverenti, ma in definitiva lontani dal graffio del grottesco
Probabilmente, l’intento è sempre quello: avvicinarsi a e avvicinare quel pubblico, che forse guarda al teatro con un misto di annoiato e disorientato timore reverenziale.
Un intento virtuoso, dunque; eppure, a volte, le buone intenzioni non bastano.
Giusto una pillola di storia (recente) del cinema
Era il 1995 quando i registi danesi Lars von Trier e Thomas Vinterberg stilavano il loro Dogma 95, ovvero un documento programmatico, a cui affidare le regole per la creazione di film basati sui valori tradizionali della recitazione, escludendo l’uso di effetti speciali o tecnologie elaborate.
Da qui nasce quel “Festen – Festa in famiglia”, scritto e diretto da Thomas Vinterberg, nel 1998, da cui lo spettacolo teatrale, grazie all’adattamento per il Teatro di David Eldridge.
Nobiltà d’intenti e vizi di forma
Cosa vediamo? Al di là di un velo a filo di proscenio, su cui vengono proiettate in tempo reale le gigantografie degli attori e loro primi piani strettissimi – fino al voyeristico limite di una deformità intenzionale e oscena e l’ostensione di ciò che per sua natura il teatro non può mostrare in modo così amplificato -, s’intravvede la scena teatrale vera e propria. Lì sono gli attori, che recitano a favore di una telecamera a mano, come previsto dal Dogma, in uno spazio volutamente vuoto e privo di ambientazione, da creare, questa, di volta in volta, grazie all’ausilio degli oggetti di scena.
Eppure qualcosa già non torna: che c’entra tutto ciò con l’esclusione di effetti speciali e di tecnologie sofisticate?
Ogni arte, si sa, ha propri canoni e linguaggi: se, nel cinema, la cinepresa a spalla dice verità, nel teatro non può che parlarci di artificio – o, comunque, di un qualcosa che agisce per addizione. Inoltre, se nel Voto di castità – così venne ribattezzato, da alcuni, il manifesto di Dogma 95 – si perseguiva una tal fedeltà al reale da bandire luci, scenografia, colonne sonore ed ogni altro espediente, già questa sofisticata macchina scenica, qui, in qualche modo dice tradimento.
Il vizio del caricaturale e la lusinga del pubblico
Accanto a queste considerazioni di carattere “tecnico”, poi, un secondo ordine di questioni.
Che senso ha, se inseguiamo una quasi naivité comunicativa, colorare tanto il registro espressivo nel senso del caricaturale e del grottesco? La realtà, è vero, spesso ne assume le nuances; eppure sceglierla come graffiante e irriverente icona pop – alla Simpson, tanto per capirsi -, per quanto liberatorio ergo ammiccante possa risultare per il pubblico, pare andare in direzione opposta ai dictat di Dogma 95 .
Quel che accade in scena
Così, quel che accade in scena è lo snocciolarsi di una sia pur sofisticata tragedia pop dai modi eccessivi e grotteschi.
La drammaturgia mentre stigmatizza l’ipocrisia di certe apparentemente inscalfibili corazzate familiari – il plot racconta della riunione al gran completo per festeggiare i 60 anni del capofamiglia, interpretato da un magistrale Danilo Nigrelli -, ne mina via via le resistenze. Non lesina di sciorinare tutte le scorciatoie del funziona meglio l’odio – dal turpiloquio all’invettiva verbale fino alla violenza fisica passando attraverso l’umiliazione –, in un costante ammiccamento col pubblico, che la regia di Marco Lorenzi sembra amplificare, quasi alla costante ricerca del liberatorio e confortante riso del pubblico.
In tal senso, il doppio ruolo di Angelo Tronca, ad esempio, che alterna il ruolo drammatico del cuoco Kim (fidato e atavico amico/confidente del primogenito Christian) al surreale nonnino svampito e sempre pronto alle più crasse gaffes.
Il risultato?
Come intorpidito da due ore di sovra eccitazione, il pubblico sembra restare egualmente attonito e iporeattivo quanto i personaggi di questo Amleto in versione contemporanea, di fronte alle sconvolgenti rivelazioni del primogenito. Alla fine esplode in un applauso scrosciante e fragoroso, che un po’ ha il sapore del liberatorio. Eppure fa pensare quell’averlo sentito sghignazzare divertito al politically scorrect, ma, soprattutto, non averne, invece, percepito lo sdegno – il teatro, se non è puro intrattenimento, non può che essere per sua natura etico, a proprio modo, e politico -, di fronte alla rivelazione dei sempre più laidi ed agghiaccianti retroscena familiari. In tutto ciò, la nota distonica di Christian (un impeccabile Elio d’Alessandro) figlio primogenito e drammaturgico antagonista del Gran Cerimoniere (un altrettanto versatile Yuri d’Agostino), quale unico elemento realmente realistico ergo fin da subito stridente in questo surreale Carnage,
Considerazioni finali
Fa pensare, perché se vero è che siamo a teatro, altrettanto vero è che qui, come si dice, tutto è finto, sì, ma niente è falso!
Ancor più fa pensare che, dal “Macbeth” di Rifici – solo fino a poche settimanale fa in una prestigiosa sala come quella del Piccolo Teatro Strehler di Milano – a molta parte del teatro post drammatico e della drammaturgia più o meno performativa contemporanea, pare che il solo modo di agganciare il pubblico sia quello di piegarsi alle sue social mode e ricalcare quei format televisivi, di cui ha ormai gli occhi avvezzi – e, a quanto parrebbe, le menti riprogrammate. Quasi che non possa esserci altro in grado di destarli dal loro mediatico divertissement – e, soprattutto, nulla, capace di smuoverli oltre al semplice riso.
Ecco perché sconcerta la loro mancanza di empatia/dis-empatia di fronte a quelle figure grottesche e bidimensionali. E, a maggior ragione sconcerta l’aver visto, in altre occasioni, eccelse prove attorali di una Barbara Mazzi, per citarne una, qui non solo inevitabilmente sacrificata all’economia del gruppo, ma, ancor più, alla logica di un gioco, che pare “acchiappa audience”.