“Vecchia, sporca e cattiva” e l’ironia salvifica di una dentiera
Andato in scena nella suggestiva sala Cavallerizza di MTM Teatro Litta di Milano fino al 4 febbraio 2024, “Vecchia, sporca e cattiva” di e con Nadia Del Frate, scritto e diretto con Claudio Intropido, è un monologo d’incredibili forza e intensità. Ironico, sferzante, dissacrante, ricolmo di quella trivialità, che sembra impossessarsi di noi, quando l’età avanza e le inibizioni sociali non bastano più a contenerci. Tanto più follemente, allora, ci aggrappiamo al flusso delle passioni e di quella vita che sentiamo inesorabilmente scivolarci via. Eppure questo spettacolo non meno brilla di quella struggente pragmatica saggezza e di quella composta pacatezza, che il pudore talvolta spinge a volger nel suo contrario.
Genius loci
C’è poco da fare: anche il luogo ha la sua importanza. Così, mentre una certa filosofia di pensiero tende a spostare il teatro fuori dai teatri, in ottemperanza al desiderio di raggiungere quanto più pubblico possibile, intercettandolo in spazi a lui più usuali – e, forse, meno caricati dal preteso timor reverenziale, che il teatro ingenererebbe in molti -, ci sono poi spazi dichiaratamente teatrali eppure al tempo stesso particolarissimi e capaci di far scoccare cortocircuiti sorprendenti.
Così è, la Sala Cavallerizza, sita al di là del cortile dell’orologio del Teatro Litta, nel Corso Magenta della Milano bene. Con le sue pareti spoglie dai mattoni a vista originari e resi un po’ meno definiti dal tempo e col suo alto soffitto semi spiovente, a ricordarne l’originaria destinazione d’uso, questa sala è quanto mai adatta ad ospitare spettacoli piccoli e raccolti, che sa contenere e accogliere, creando una dimensione intima e ravvicinata. Proprio qui, “Vecchia, sporca e cattiva” – una di quelle storie, che hanno fatto LA Storia, pur senza presunzione alcuna di farla.
L’insospettabile forza salvifica dell’ironia
Spalle al pubblico e protetta nella sua comoda dalla semi oscurità blu rischiarata appena dalla luce flebile di una candela: ci accoglie così, la vecchia, una Nadia Del Frate dalla mimica, prossemica e vocalità straordinarie. E quanto intenzionalmente stridono, le note ovattate del nostalgico andante voglio vivere così, sovrastate dalla sua cantata sgangherata e in contro tempo, con tutto il vigore e la voglia di trattenerne il senso – pur in realtà sapendolo che è ben altra, la storia che si va a raccontare.
Ce ne accorgiamo immediatamente, fin da quel: “Ce ne vuole, d’ironia, per diventar vecia…” , subito dopo al pastiche iniziale col solito malcapitato in prima fila a suon di affilate arguzie e bonariamente triviali doppi sensi. E mentre il pubblico divertito ride, avviluppato già nella sua sapiente ragnatela, la tonalità scolora: “quando la tua anima profuma di mare, mentre il corpo… non para più neanca il tuo! […] E allora diventi come la tua dentiera: che ride e digrigna i denti…”, sentenzia, con voce profonda e ancor più abissale umore.
Inizia così il flusso di ricordi, dal primo amore ai riccioli della sorellina, per poi inesorabilmente degradare verso la brutalità della povertà e della guerra. E se non mancano i passaggi drammatici – più spesso agiti, che raccontati, restituendo, così, dignità e pudore a quelle vittime della crudeltà degli uomini e del destino, lei compresa -, punti di forza restano di certo l’ironia e l’autoironia, che sembrano non farla dare mai per vinta. Con naturalezza e ritmo e perfetta soluzione di continuità, passa dalla veciàsa dispettosa, che intenzionalmente manda in tilt il traffico per solo amore di divertimento, alla ragazzetta innamorata – ora madre colma di tenerezza, ora disincantata sposa. In sottotraccia costante sempre lei: donna dissacrante, che ha sempre preferito non piangersi addosso, volgendo tutto in una comica, sgraziata piroetta malriuscita, fulminea arguzia, risata o battutaccia crassa, ma dall’effetto catartico garantito come in quel canticchiare solo apparentemente leggero Avanti e indrè, che bel divertimento (dall’omonima canzonetta del 1949), caustico stornello a commento dell’agghiacciante stupro di gruppo, durante la guerra, nel vano tentativo di far trarre in salvo il giovanissimo fidanzatino.
Il grottesco e il suo alter ego
Ce lo ha insegnato Dante – e Omero, prima di lui, nella discesa di Ulisse all’Ade -: in ogni viaggio, che si rispetti, occorre che il viandante sia accompagnato da una sua ombra. Alter ego, qui, è la figlia/attrice: basta il semplice sfilarsi il pesante berretto di lana, ed eccola tornare in sé – postura diritta ed eloquio in perfetta dizione. È sorprendente l’istantanea efficacia del mutamento: un attimo prima la vecchia, sporca e cattiva, il corpo incurvato dall’artrosi e i movimenti stentati e tremuli, accompagnati da una voce roca, che irrompe, a fiotti, da labbra spesso serrate e scosse da smorfie fors’anche di reticenza, un attimo dopo la figlia, testimone ideale. Eppure è sempre lei. Come quei burattini, che, a seconda di come li si indossi, mostrano un personaggio o il suo antagonista, allo stesso modo, con questo escamotage, la Del Frate sembra ricostruire il filo spezzato di un dialogo interrotto dalla vita, ma portato a nuova vita sul palco – non luogo capace di farsi scatola magica e proiettore di quel che è stato, ma anche di quel che, ce lo svelerà l’epilogo, si è preferito dissimulare.
Ed ecco che, complice una regia attenta e discreta, la cui presenza s’indovina appena in quelle canzonette d’antan o in quello spazio sempre mosso e movimentato, quasi a darci l’impressione dell’inafferrabilità di un personaggio così solo apparentemente indovinabile, l’irriverente, comica, grottesca anziana si rivela liberatoria voce di quegli insanabili sfregi, con cui la Storia ha marchiato le generazioni passate – e, morendo loro, tanto più prepotente si fa, in chi dopo di loro, l’urgenza della memoria. Sempre lei è anche spia delle nuove cicatrici di quel tempo di pace, certo non meno prodigo di brutture, stanchezze e prevaricazioni, nelle moderne arene del tutto per bene, in cui non mancano nuovi spauracchi, né rigurgiti di vecchi demoni.