“Zoo” di Sergio Blanco: smontiamo il meccanismo
Ci sono almeno un paio di modi per fruire di una rappresentazione teatrale: uno è abbandonarsi al fluire della trama, l’altro è accendere la mente, oltre al cuore, e cercare di capire dove intenda portarci l’autore. Se questo è vero per qualsiasi spettacolo, in particolar modo lo è per “Zoo” di Sergio Blanco. In scena al Piccolo Teatro di Milano dal 26 marzo al 5 maggio del 2022, questo testo dalla trama “quanto meno insolita” – così commentava uno spettatore all’uscita di sala -, è quanto mai leggibile secondo i due diversi approcci.
Da un lato la trama
Come tutti i testi del drammaturgo franco-uruguaiano, anche “Zoo” è giocato fra teatro ed una sorta di metateatro. Blanco lo chiama autofinzione – che, in più, si arricchisce con elementi “liberamente” autobiografici degli attori o dello stesso autore, che si fa anche personaggio in scena.
Il plot narra dell’insolita relazione fra lo stesso Sergio – o una sorta di sua guest star – e Tanzo, un gorilla in cattività. Poco importa, poi, che il luogo dei fatti fosse lo zoo di Parigi, anziché quello milanese (la cui chiusura data 1992) o che l’attore in scena, questa volta non sia lo stesso Blanco.
Un prologo e un epilogo incorniciano i quattro atti di conoscenza, avvicinamento, incontro e abbandono, che scandiscono il lungo tempo unico dello spettacolo. Dicono dell’instaurarsi di un rapporto reciproco, fra scrittore e gorilla, dalla complicità tanto singolare, da scivolare in qualcosa di sconcertante, per lo stesso protagonista, e quasi indicibile. A far da sponda a tutto questo, lo sguardo dichiaratamente distaccato della scienziata – che, prevedibilmente, svelerà un passato e delle ragioni non altrettanto asettici. Lei è il polo dialettico; è lei, che consente il procedere del pensiero e, quindi, dell’azione, in questa forma di scrittura, che sembra usare la trama quasi come occasione prossima per snocciolare le sofisticate teorie drammaturgiche dell’autore.
E poi c’è il sogno intrusivo di Edda Ciano – originario oggetto del progetto di scrittura del protagonista, prima di virare verso la sua esperienza con Tanzo.
Dall’altro lo smontaggio del meccanismo
La trama (concetto cardine del Blanco pensiero, che, nella premessa del suo saggio “Autofinzione. Ingegneria dell’Io”, ne sottolinea la sorprendente liquidità con quello di trauma) è continuamente interrotta da strumentalissimi aneddoti. Che si tratti di ricordi delle prove o di perle di saggezza dell’invisibile, ma onnipresente deux ex machina Sergio Blanco, vengono comunque introdotti con arte dagli stessi attori, in quei frangenti loro pure guest star di se stessi. Agganciano il pubblico con quell’allure di vita vissuta, a cui ci hanno abituato i vari reality – sebbene, come appunto i reality c’insegnano, di vissuto ci sia solo il gioco ad inventarsi i marchingegni più raffinati nel carpire la benevolentia del pubblico. Conditi con le canzoni di quand’eravamo ragazzi (da “Wanderfull life” ad “Animal Itinct”), suonati e cantati dal vivo da quei due pezzi di figlioli di Sara Putignano (la Dottoressa Rosenthal, ma anche Edda Ciano) e Lino Guanciale (che interpreta lo stesso Blanco) e infarciti di video dai colori sgargianti e dai caratteri cubitali ed altre diavolerie tecnologiche (su cui lo stesso autore ironizza per bocca delle sue supermarionette in scena), hanno gioco facile nel creare una caleidoscopica scatola magica, in cui volentieri si accoccola, chi desidera lasciarsi andare al fluire della storia.
C’è tutto: l’entusiasmo dello scrittore per il proprio progetto, la sorprendente reazione del primate agli stimoli artistico culturali, la semplificazione dell’opposizione fra passione letteraria versus asetticità scientifica e quel tanto di prouderie sufficiente a introdurre l’elemento perturbante, capace di sparigliare le carte. E non solo: ci sono anche questi attori, che, quasi figli di confessionali non dichiarati, all’improvviso si spogliano del loro ruolo per raccontarci aneddoti, in cui ostentano stralci e chicche di vita. Come gli scontri dialettici fra i loro rispettivi personaggi, spesso risultano strumentali a raccontarci chi sia l’artista Blanco e quale sia il suo pensiero teorico filosofico: quasi un curriculum non petito, che se da un lato c’informa, fra lo scanzonato e il faceto, dei suoi prestigiosi antecedenti, dall’altro rischia di risultare del tutto gratuito ed indesiderato, in un tempo, in cui dovrebbe essere lo spettacolo stesso, e non il suo biglietto da visita, a farci apprezzare il compiuto esito di cotanti pregressi.
Excusatio non petita
Mutuata dalla definizione ossimoro di Doubrovsky (“autofinzione” nel senso di ”finzione di fatti ed eventi strettamente reali”), sempre in “Autofinzione. L’ingegneria dell’io” Blanco la trasla in: “associazione fra elementi autobiografici ed elementi finzionali”. E vien da chiedersi: cos’altro sono la stessa vita sociale (Pirandello docet) o lo storytelling e l’auto narrazione sui social, se non, appunto, questo? Ne “Il bramito di Düsseldorf”, Blanco la declina come “il lato oscuro dell’autobiografia”, perché “come l’autobiografia si basa su un patto di verità, così nell’autofinzione vige un patto di menzogna”. “Non ci troviamo nel dilemma ‘dell’essere o non essere’, ma nella certezza dell’ ‘essere e non essere’”; insomma: da Parmenide a Eraclito o ai sofisti.
Altro elemento precipuo è la reclamata a-moralità. Anche di questo disquisiscono, in scena, l’avatar dell’autore e l’etologa a proposito del demone della bellezza e della problematizzazione della sua ricaduta morale. È esattamente questo il senso dei sogni intrusivi su Edda Ciano: la sua vita estetizzante dannunzianamente affonda il dito in questo nodo gordiano fra bellezza, arte e morale. “Suprema esperienza dell’illegittimo, questo è l’autofinzione – scrive sempre nell’omonimo saggio – un territorio tentatore, dove non esiste legge, né morale”. Premessa efficace per far accettare qualsiasi scandalo, affettivo o non, dietro la cui eventuale finzione ciascuno possa ammantare le proprie più inconfessabili paure.
Tutto questo per portarci al (suo) cuore: “Non scrivo di me perché mi voglio bene, ma perché gli altri mi vogliano bene”. Affermazione dalla lapalissianità disarmante, dato che chiunque avverta anche solo il desiderio di un pubblico, in fondo non fa che bramare quanto meno quella sottile forma di apprezzamento che è il riconoscimento (l’attestazione di esistenza), se non l’approvazione o il plauso. In più, qui Blanco ne esplicita la natura transitiva: “Per quanto l’impresa autofinzionale nasca da un Io […], l’Io non è che il punto di partenza di un percorso, che si snoda oltre se stessi per dirigersi verso un Altro”, scrive, quasi a prevenirne un’eventuale deriva narcisistica con tutta la portata disturbante e respingente, spesso scatenata dall’autorefernzialità.
Finzione, ostentazione, manipolazione
Quindi, sì: finzione, ostentazione, manipolazione. Eccole, le premesse ideologico teoretiche, che in effetti pesano in questo spettacolo. E se otre duemila anni di storia del teatro hanno educato il pubblico al patto narrativo, l’intero marchingegno di “Zoo” davvero rischia di funzionare come un auto-attacco permanente (altra sua definizione di autofinzione). Intanto deconcentra, il continuo entrare-e-uscire dalla trama per il solo apparente motivo di fornirci quei fondamenti teorici, che chissà se davvero si sente il bisogno di ricevere durante la narrazione.
Se alla finzione, poi, il pubblico è ben avvezzo, altro discorso per una finzione, che si ammanti di verità (ammiccante, spesso, come l’aneddoto dei dentini del bimbo dell’attore) per poi invece trattenersi nel campo sdrucciolevole del chissà (vedi ventolin dell’attrice; che poi: che differenza fa?). Ostentata è la recitazione imposta agli attori, così come la ridondanza di segni, scritte, colori, immagini, suoni, proiezioni… Il rischio è di sovrascriversi ai già recitativamente sovraesposti e al tempo stesso rimossi Sara Putignano e Lino Guanciale, così rigidamente intrappolati nel gioco recitativo, da scomparire, quasi, nell’algida asetticità della loro funzione e finzione attorale; per non parlare di Lorenzo Grilli, letteralmente nascosto nello scimmione Tanzo, di fatto più raccontato, che agito.
E poi la manipolazione. Se vero è che il teatro è strutturalmente manipolatorio – come del resto è, per contraltare, voyeristico -, dovrebbe poi esistere un’etica della manipolazione – come anche della visione. Ma per premessa ideologica così non è in Blanco. Dietro alla sua rivendicazione di a-moralità, si ammantano quei meccanismi manipolatori, capaci sì di scattare come macchine infallibili agli appuntamenti emozionali. Già: ma a qual pro? Piangiamo tutti amare lacrime di fronte al pietoso epilogo; sì, ma che bisogno c’era di dichiararne l’imminente visione, se non per amplificacene la reazione emotiva grazie alla disposizione anticipatoria? Catarsi? Accanimento emozionale? Delirio di onnipotenza?
Chissà se davvero riesca a farsi amare chi giochi in questo modo con quella delicatissima trina, che il vissuto emozionale dell’altra parte del patto narrativo.